La grande offensiva sunnita di Ramadan
secondo George Friedman

03/07/2014

Nel febbraio del 1968 l’esercito nordvietnamita e i Vietcong lanciarono un’offensiva in Vietnam in occasione del Tet, il capodanno vietnamita.

Dal 1966 i Nordvietnamiti erano sotto la costante pressione delle forze americane e sudvietnamite. Non erano sull’orlo della sconfitta, ma si stavano indebolendo e le possibilità di una vittoria erano sempre più scarse. Perciò i Nordvietnamiti decisero di invertire il corso degli eventi politicamente e militarmente arruolando tutte le forze disponibili, tenendo solo poche riserve e lanciando un’offensiva nel Vietnam del Sud.

L’attacco aveva un triplice scopo:

1)     innescare la rivolta contro gli Americani e il governo del Vietnam del Sud; 

2)     usare l’insurrezione per conquistare un’ampia fetta di territorio che permettesse di resistere al contrattacco;

3)     destabilizzare psicologicamente il nemico dimostrando che le informazioni di intelligence sulla debolezza dei Vietcong erano infondate. Chiaramente volevano anche causare il maggior numero di morti fra gli Americani, per colpirli allo stomaco. Più alto fosse stato il numero delle vittime, maggiore sarebbe stata la sfiducia dell’opinione pubblica americana verso i militari e l’intelligence.

Sul piano militare l’offensiva fu un fallimento. I Nordvietnamiti soffrirono enormi perdite; conquistarono Hue e altre località, ma non riuscirono a tenerle a lungo. Ma riuscirono a sollevare dubbi sulle capacità americane e a creare una crisi politica negli Stati Uniti. In guerra spesso la percezione della forza e della volontà nemica e la fiducia nelle proprie capacità può modificare il combattimento. Prima di Tet l’intelligence americana si era sbagliata di rado, ma l’offensiva del Tet causò una crisi di sfiducia negli USA. Sebbene i Vietcong fossero militarmente più deboli dopo l’offensiva, il loro sostanziale fallimento passò in secondo piano.                               

Decisioni di questo tipo per invertire una crisi militare non sono peculiari all’offensiva del Tet.  Anche i Tedeschi fecero altrettanto con l’offensiva delle Ardenne. Al di là degli obiettivi puramente militari, i Tedeschi avevano intenti psicologici. Gli Alleati credevano che la Germania fosse allo stremo delle forze, i Tedeschi dovevano mostrare di avere ancora delle potenzialità, perciò radunarono tutte le forze a disposizione per spezzare la fiducia degli Alleati.

Lanciata al momento giusto, l’offensiva imprevista è un’arma molto efficace. Questo accade attualmente in Iraq. Se guardiamo al quadro regionale, è in corso un’offensiva dei jihadisti sunniti in molti paesi – in Afghanistan, in aree finora considerate sicure, in Pakistan, dove l’esercito è stato costretto a lanciare una controffensiva. In Siria lo Stato Islamico (già Stato Islamico dell’Iraq e del Levante) non avanza e non arretra; nel sud della Giordania sono in corso scontri fra i jihadisti sunniti e le forze governative. Infine nei territori palestinesi Hamas ha annunciato la terza intifada, in Egitto si moltiplicano gli episodi di terrorismo e i jihadisti libici si sono ormai ritagliati uno spazio di prim’ordine.

Proprio come i Vietnamiti e i Tedeschi, i jihadisti negli ultimi anni sono stati sulla difensiva, dopo essere stati dispersi e in parte annientati. È una situazione diversa da Vietnam e Germania, nel senso che non si tratta di un unico esercito nazionale.  C’è però da chiedersi se queste offensive siano collegate fra di loro. Gli eventi in Siria, Iraq e Giordania sono evidentemente legati fra loro. Non è certo che ci siano legami anche con il Pakistan e l’Afghanistan. Se così fosse, la regia sarebbe probabilmente di matrice saudita. L’Arabia Saudita agisce in modo sotterraneo per non lasciare tracce. Ma Riyadh è preoccupata dalla prospettiva di un accordo USA-Iran e cerca di servirsi dei jihadisti per aumentare l’influenza nella regione. Alcuni segnali indicano un certo livello di coordinazione, come il video in cui il gruppo pachistano Ansar Ad Dawlah Al Islamiyya annuncia e celebra l’alleanza con l’ISIS. Tutto questo ha comunque un’importanza marginale. Queste sollevazioni concentrate in un periodo di tempo così breve, hanno raggiunto lo scopo: dare l’impressione che la regione sia ormai in preda al caos e che la forza dei jihadisti sia molto grande.

In ogni teatro attuale di guerra sono avvenute più o meno le stesse cose. Primo, gli USA hanno ritirato le forze sul terreno lasciando maggiore libertà d’azione alle forze jihadiste. Secondo, i negoziati con l’Iran hanno creato fra i Sunniti il timore che l’intera struttura della regione stia mutando a loro svantaggio. Terzo, in Afghanistan, Iraq, Egitto e recentemente anche in Siria le elezioni hanno confermato un trend anti-jihadista. La combinazione di questi tre elementi ha spinto i jihadisti all’azione, indipendentemente dall’aiuto che potevano ottenere dall’esterno.

I jihadisti vogliono mostrare che la loro forza militare è grande per influenzare l’evoluzione politica delle aree dove il loro peso è diminuito negli scorsi anni. L’Iraq è l’esempio più eclatante. Il paese è diviso in tre: gli Sciiti, il gruppo più grande, controlla il governo di Baghdad e dispone di grandi riserve di petrolio a sud. Nel nord, i Curdi sono ben organizzati ed equipaggiati e controllano ingenti risorse petrolifere. I Sunniti invece hanno accesso in misura minima alle risorse, sono meno numerosi degli Sciiti e sono stati progressivamente marginalizzati nell’epoca post-Saddam.  Dopo le recenti elezioni, il nuovo governo avrebbe riflesso esattamente quello di prima, e i Sunniti hanno deciso di dare battaglia. Con una forza che pare capace di conquistare l’intero paese si siederanno al tavolo dei negoziati a ridiscutere di questioni politiche ed economiche in posizione di vantaggio.

Dalle notizie che leggiamo, pare che un grande esercito sunnita stia marciando verso la capitale – che è esattamente quello che vuole far vedere lo Stato Islamico. La realtà è senza dubbio più modesta.  Si tratta di una rivoluzione sunnita in favore dell’ISIS piuttosto che di un’invasione dei territori sciita e/o curdo. In ogni caso l’offensiva ha messo in discussione la supremazia sciita. L’esito può essere duplice: o gli Sciiti cedono oppure organizzano il contrattacco. Lo Stato Islamico spera che l’autostima sciita vada sgretolandosi poco a poco di fronte all’incertezza, dato che ha avuto effetti negativi anche su Americani e Iraniani. Né Teheran né Washington si aspettavano un attacco simile: entrambi facevano affidamento su informazioni di intelligence che davano l’Iraq come un paese a guida sciita in fase di stabilizzazione in cui il principale problema era quello di gestire le rivendicazioni curde sulle risorse petrolifere del Kurdistan.

Lo Stato Islamico vuole instillare il dubbio sulle informazioni di intelligence di Iran e Stati Uniti, per indurli ad astenersi da ogni intervento in Iraq. Finora lo Stato Islamico sembra essere riuscito nel proprio intento.

Presto capiremo se l’offensiva sunnita ha raggiunto gli obiettivi. Le conseguenze potranno variare da paese a paese. Il caos in Giordania si intensificherà?

I Talebani afgani riusciranno a impadronirsi del territorio, man mano che le truppe americane si ritirano? E se l’esercito pakistano riuscirà a mettere in fuga i Talebani senza annientarli, la loro sopravvivenza potrebbe ancora minacciare il regime?

Se ben congeniata, l’idea di lanciare un’offensiva da una posizione di inferiorità può funzionare: il caso di Tet è un classico caso di successo. L’offensiva delle Ardenne invece andò diversamente. I Nordvietnamiti riuscirono a far credere che la loro forza militare fosse molto grande, mentre nelle Ardenne Patton non fu impressionato dall’offensiva e lasciò che i Tedeschi arrivassero vicino a Parigi consumando tutta la benzina che avevano a disposizione. Per questo le notizie sui successi dei jihadisti andrebbero prese con le pinze.

È in corso un’offensiva dal Pakistan al Mediterraneo, poco importa che sia semi-spontanea o manovrata. In alcuni teatri non cambierà nulla, in altri invece l’esito potrebbe cambiare l’equilibrio delle forze. Proprio quando l’opinione pubblica pensava che la guerra in Iraq fosse alla fine, l’offensiva mostra agli occhi del mondo che non è così. E questo ricorda ancora una volta la strategia dell’offensiva di Tet. 

Lascia un commento

Vuoi partecipare attivamente alla crescita del sito commentando gli articoli e interagendo con gli utenti e con gli autori?
Non devi fare altro che accedere e lasciare il tuo segno.
Ti aspettiamo!

Accedi

Non sei ancora registrato?

Registrati

I vostri commenti

Per questo articolo non sono presenti commenti.