Lo scopo dei miti nazionali non era soltanto sviluppare solidarietà e coesione fra le masse popolari in profonda trasformazione, ma anche giustificare moralmente l’esclusione e la rivalità nei confronti di altri popoli.
Nei decenni a cavallo fra 1800 e 1900 le popolazioni contadine che si spostavano in città alla ricerca di un’educazione superiore e di ascesa sociale, spesso si imbattevano in una società in cui molti ruoli chiave nel governo e nell’economia erano già occupati da minoranze che avevano saputo mettere a buon frutto il loro ‘capitale culturale’, cioè l’abitudine a commerciare, viaggiare e studiare. Gli Ebrei, ad esempio, erano ovunque una piccola minoranza disprezzata e ghettizzata, ma quando poterono partecipare alla competizione alla pari con gli altri riuscirono ad eccellere, perché molto più preparati ai requisiti della società moderna per l’abitudine millenaria a migrare, a studiare, a vivere di commerci. Pochi decenni dopo aver ottenuto gli stessi diritti degli altri cittadini, rappresentavano una percentuale abnorme delle élite economiche e culturali dell’Europa occidentale, suscitando enorme invidia e risentimento sociale. In situazioni di simile imprevisto privilegio si trovarono anche altre minoranze. Ad esempio i Tedeschi in Ungheria, Boemia Moravia e Transilvania, gli Armeni e i Greci nei Balcani e in tutti i territori dell’Impero Ottomano, gli Italiani in Istria e Dalmazia.
In queste mappe storiche è chiaro che la frammentazione etnica era la regola in larghe parti d’Europa, ancora a inizio ‘900. Ecco ad esempio l’Ungheria. Ecco l’Europa ottomana. Per non parlare dell’impero russo. Ecco l’intreccio territoriale di ben sette nazionalità diverse in una piccola parte dell’attuale Ucraina, nella seconda metà dell’800. Ucraini e Russi qui hanno lo stesso colore verde perché considerati collettivamente maggioranza, anche se parlavano lingue diverse. Oggi gli Ucraini di lingua russa cercano l’indipendenza dal resto dell’Ucraina, proseguendo il processo di separatismo etnico iniziato cento anni fa.
Capita l’importanza del ‘capitale culturale’ per far carriera, “i gruppi maggioritari che parlavano la stessa lingua o dialetti affini, e che vivevano nella regione da molti secoli, iniziarono a pensare di appartenere a un‘unica comunità e di potersi distinguere dalle altre comunità”, dice Gellner. Dunque svilupparono convinzioni nazionalistiche, e iniziarono a richiedere uno stato nazionale proprio, in cui si parlasse una sola lingua – la propria – e in cui soltanto gli appartenenti al gruppo di maggioranza potessero ricoprire ruoli dirigenziali in politica, nelle organizzazioni burocratiche e nel commercio, escludendo le altre comunità. Il nazionalismo di ogni gruppo maggioritario giustificava l’esclusione degli altri attribuendo a se stesso superiori doti morali. Il diritto a cacciare o sopraffare gli altri venne fondato principalmente sulle teorie di Hegel, che divennero credenze radicate, articolo di fede: la fede che l’appartenenza millenaria a uno stesso gruppo, che si ipotizzava sempre imparentato con se stesso − quindi dello stesso sangue − e radicato sempre sullo stesso territorio o suolo, determinasse lo ‘spirito’ del gruppo, la sua moralità, la sua nobiltà. Sangue e Suolo, Blut un Boden in tedesco, divennero le parole d’ordine di tutti i nazionalismi che volevano cacciare le minoranze dai propri confini o che volevano conquistare altri territori perché abitati da appartenenti allo stesso gruppo nazionale, considerati ‘fratelli’ da liberare dal giogo straniero. È il fenomeno dell’irredentismo.
La credenza nella superiore nobiltà dello ‘spirito’ della propria nazione alimentò i nazionalismi europei a cavallo fra ‘800 e ’900, portò alla Prima Guerra Mondiale e allo smembramento degli imperi, alla costituzione di nuovi stati nazionali, alla deportazione o allo sterminio di milioni di persone che costituivano minoranze all’interno di stati nazionali. Là dove grosse minoranze rimasero entro i confini dei nuovi stati, come avvenne in Cecoslovacchia, si scatenò l’irredentismo che, nonostante accordi temporanei di partizione dei territori contesi, sfociò in atrocità durante la Seconda Guerra Mondiale e provocò la deportazione dei Tedeschi dai territori contesi, dopo la sconfitta. Furono espulsi anche gli Italiani dall’Istria.
Dal crollo degli imperi dopo la Prima Guerra Mondiale emerse lo stato indipendente di Polonia, che aveva al suo interno grosse minoranze di Ucraini, Ebrei, Lituani, Bielorussi, Tedeschi. La Polonia divenne terra di atrocità inenarrabili durante la Seconda Guerra Mondiale, sia da parte dei Tedeschi, sia da parte di quelle minoranze che avevano accolto i Tedeschi con favore, sia da parte dei Sovietici che sterminarono la classe dirigente polacca per annetterne il territorio.
Allo sfaldamento dell’Impero Ottomano nel 1918, alcuni stati si scambiarono forzatamente masse di popolazione. Grecia e Turchia ‘trasferirono’ due milioni di persone da uno stato all’altro, e la Società delle Nazioni nel 1923 accettò tali deportazioni come legittime. Ogni stato cercò di espellere le minoranze etniche per diventare stato ‘nazionale’, e cercò di accogliere i ‘propri’ entro le frontiere. 360 000 Greci sparsi nelle isole turche dell’Anatolia, troppo scomodi da deportare, vennero invece assassinati. Già nel 1915, all’inizio della guerra, i Turchi avevano deportato e sterminato la grande maggioranza dei loro concittadini armeni, nel timore che avessero simpatie per i nemici russi.
Ancora nel 1949 la comunità internazionale accettava scambi di popolazione o deportazioni come il male minore. Diceva Mussolini: “Quando l’etnia non va d’accordo con la geografia, è l’etnia che deve muoversi”. Nel dicembre 1944 Churchill disse in un discorso alla Camera dei Comuni, parlando della possibile espulsione di 14 milioni di Tedeschi dall’Europa orientale alla fine della guerra, “Per quanto è dato vedere, l’espulsione è […] la soluzione più soddisfacente e definitiva. Non vi saranno più commistioni di popoli che causano guai infiniti come in Alsazia-Lorena. Si farà piazza pulita. La prospettiva di sradicare una popolazione non mi spaventa affatto, così come non mi spaventano questi trasferimenti di massa, oggi più possibili che in passato grazie alle tecniche moderne”.
I decreti di espulsione avevano motivazioni a un tempo nazionaliste e sociali, secondo il mix di sentimenti − socialisti e nazionalisti − che dominò la politica europea per tutta la prima metà del XX secolo. Ecco le basi morali e politiche esplicite del decreto di espulsione dei Tedeschi e degli Ungheresi dalla Cecoslovacchia nel 1945: “In base alle domande dei Cechi e degli Slovacchi senza terra per un’effettiva esecuzione della riforma agraria e al desiderio di togliere una volta per tutte il suolo ceco e slovacco dalle mani dei proprietari terrieri stranieri – tedeschi o ungheresi – nonché dalle mani dei traditori della repubblica, per consegnarlo nelle mani dei contadini cechi e slovacchi e delle persone senza terra”. Le deportazioni iniziarono a essere considerate illegittime per il diritto internazionale durante il processo di Norimberga, quando vennero vagliate le pratiche naziste di «germanizzazione» dei territori occupati e la deportazione di milioni di civili per il lavoro forzato nel Reich. L’articolo 6 dello Statuto di Londra del Tribunale Militare Internazionale, dell’agosto 1945, elencava per la prima volta le deportazioni fra i «crimini contro l’umanità». La Quarta convenzione di Ginevra del 1949 annoverò le deportazioni tra i crimini di guerra.
Dopo la Seconda Guerra Mondiale, durante la Guerra Fredda, sotto l’influenza degli USA l’Europa occidentale si diede istituzioni sovra-nazionali, e i sentimenti nazionalisti divennero obsoleti per gli Europei del dopoguerra. Nel vasto impero comunista, costituito dall’Unione Sovietica e dagli stati ‘satelliti’, fino alla morte di Stalin nel 1953 continuarono le deportazioni di intere popolazioni, come strumento di gestione sia della sicurezza e dell’ordine interno, sia della politica di industrializzazione. Ma le deportazioni etniche e i processi di ‘russificazione’ avvennero non in nome del nazionalismo, bensì in nome dell’ideologia comunista. L’ideologia sovranazionale sembrò aver sconfitto la presa dell’appartenenza etnica sia in occidente, sia nel mondo comunista.
Ma gli eventi degli ultimi anni dimostrano che il sentimento di nazionalismo etnico è tornato a essere forte in varie parti del mondo, e torna a essere assassino. In Myanmar, oggi, nel 2014, la maggioranza ha tolto ogni diritto alla minoranza Rohingya, la sta scacciando, ne sta facendo strage. La ex Jugoslavia dagli anni ‘90 ha visto guerre e stragi a più riprese fra gruppi etnici diversi, e si è frantumata in stati diversi. Il massacro di 8500 civili inermi a Sebrenica, per motivi etnici, è avvenuto a pochi chilometri dai nostri confini, nel 1995, sotto gli occhi degli osservatori dell’ONU.
Non sempre la divisione etnica avviene tramite stragi, per fortuna, però prosegue, anche nel cuore d’Europa. La Cecoslovacchia nel 1993 decise di dividersi pacificamente in due stati, perché gli Slovacchi volevano l’autonomia dai Cechi. Ora i Catalani vorrebbero l’indipendenza dalla Spagna, di cui sono cittadini dal 1716, gli Scozzesi vorrebbero l’indipendenza dal Regno Unito, di cui sono cittadini dal 1603. Mentre la popolazione multietnica della Transnistria, composta di Ucraini, Russi e Moldavi, rifiuta di far parte della Moldavia.
Il nuovo separatismo etnico si sviluppa proprio mentre i sistemi di comunicazione e di trasporto, la tecnologia e il commercio tendono alla creazione di un’unica comunità globale, in cui prosperano élite con una cultura sovranazionale, cosmopolita, di livello elevato, mentre le grandi classi medie cresciute nella seconda metà del XX secolo negli stati-nazione industrializzati vanno assottigliandosi e impoverendosi rapidamente, da quando la Guerra Fredda è finita e il mondo si è aperto alla libera circolazione di merci, persone e capitali. Fra le élite globali e le masse con ‘capitale culturale’ limitato si è creato di nuovo un solco che si va approfondendo, e il separatismo etnico pare essere di nuovo la reazione delle masse meno acculturate all’accentuato internazionalismo della cultura e dell’economia moderna.
Nel mondo arabo e islamico il separatismo etnico è oggi particolarmente virulento, su base tribale e religiosa oltre che linguistica, e origina spaventose guerre civili per il controllo delle risorse economiche. Il Sud Sudan è travagliato da stragi inter etniche fin dal 1983; il Libano lo è stato dal 1975 al 1991, e potrebbe tornare a esserlo. La Somalia è in guerra civile dal 1988. Nel 2014 sono in piena guerra civile la Libia e la Siria, mentre l’Iraq si è praticamente, anche se non legalmente, diviso in tre parti, scarsamente controllate dal governo centrale, spesso travagliate dal terrorismo.
Il separatismo culturale o etnico può essere una fase transitoria nella storia di un popolo, ma diventa veicolo distruttore di ogni civiltà quando è integrato e rafforzato dal razzismo, particolarmente da quel tipo di razzismo nato nella seconda metà del 1800, con un alibi pseudo scientifico: il ‘darwinismo sociale’. Su questo argomento occorre un approfondimento specifico. Si veda il video ‘Dal nazionalismo al razzismo’.
Il nazionalismo è da considerare un fenomeno storico positivo o negativo? Storicamente il nazionalismo estese il concetto di fratellanza e uguaglianza di diritti a gruppi molto vasti, cancellando le distinzioni di casta, il campanilismo e il tribalismo, grazie all’adozione di una lingua comune, alla rimozione delle limitazioni alla mobilità territoriale e all’abolizione del collegamento fra i diritti di cittadinanza e l’appartenenza religiosa. Questa estensione di diritti e di libertà poteva essere garantita dal potere statale a coloro che vivevano sul territorio dello stato, perché la giurisdizione dello stato era ovviamente limitata dai suoi confini. Ma i diritti erano considerati universali e naturali, appartenenti a tutti. Recita la premessa alla Dichiarazione d’Indipendenza degli Stati Uniti d’America del luglio 1776: “Consideriamo verità evidenti che tutti gli uomini sono creati uguali; che sono stati dotati dal loro Creatore di taluni diritti inalienabili; che, fra questi diritti, vi sono la vita, la libertà e il perseguimento del benessere. Che per garantire questi diritti, vengono istituiti fra gli uomini dei governi che derivano dal consenso dei governati il loro giusto potere”.
La Dichiarazione francese dei Diritti dell'Uomo e del Cittadino, proclamata tre anni più tardi, recita: “Gli uomini nascono e rimangono liberi e uguali nei diritti. […] Il fine di ogni associazione politica − cioè degli stati − è la conservazione dei diritti naturali e imprescrittibili dell’uomo. Questi diritti sono la libertà, la proprietà, la sicurezza e la resistenza all’oppressione”. Dopo questa affermazioni si aggiunge che “Il principio di ogni sovranità risiede essenzialmente nella Nazione”. Nazione è un concetto vago, che però implica una ‘nascita’ comune. La nazione è l’insieme dei ‘nati’ che si riconoscono in un antenato comune, secondo i miti di fondazione cui ogni società si ispira per cementare la solidarietà interna.
Nella storia umana i miti di fondazione hanno sempre giocato un ruolo primario, che noi oggi non capiamo, perché siamo eredi della Rivoluzione Francese e Americana e della Dichiarazione dei Diritti Universali dell’Uomo. Si vedano a questo proposito i video ‘Il sacro, la legge e il potere politico’, e ‘La violenza fratricida nei miti fondatori delle società, e i riti di coesione’. Ma il concetto di ‘appartenenza per stirpe, per discendenza da antenati comuni’ non è affatto scomparso nella società contemporanea – ha soltanto cercato basi razziali o culturali apparentemente più razionali e più chiare.
Nella prima metà dell’Ottocento al concetto di cittadinanza per ‘suolo’, cioè per nascita entro i confini territoriali dello stato, si aggiunse e spesso si sostituì il concetto di cittadinanza per appartenenza alla Nazione, e la Nazione venne definita per ‘sangue’, cioè per stirpe e per tradizioni. Così iniziarono i processi che portarono all’esclusione razziale o etnica, e agli orrori degli ultimi cento anni, in società progredite che sostenevano di ispirarsi a principi di uguaglianza e di fratellanza, ma si costituivano su base ‘nazionale’, definendo la nazione in modo ristretto e arbitrario. Scrive Georges Bensoussan in ‘L’eredità di Auschwitz’: “Essendo assimilati ai diritti nazionali, i diritti dell’uomo vengono negati dallo stato-nazione nel momento stesso in cui appaiono. […] La ‘denazionalizzazione’ è l’arma suprema dello Stato, e se solo la nazionalità può conferire la cittadinanza, tutti i crimini di Stato sono possibili. […] Se la perdita dei diritti nazionali determina la perdita dei diritti umani, come si può parlare ancora di ‘diritti naturali’?
Dopo la Seconda Guerra Mondiale venne costituita l’ONU, l’Organizzazione mondiale delle Nazioni Unite, che il 10 dicembre 1948 adottò la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo. Ecco i primi tre articoli:
Articolo 1 - Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza.
Articolo 2 - Ad ogni individuo spettano tutti i diritti e tutte le libertà enunciati nella presente Dichiarazione, senza distinzione alcuna, per ragioni di razza, di colore, di sesso, di lingua, di religione, di opinione politica o di altro genere, di origine nazionale o sociale, di ricchezza, di nascita o di altra condizione. Nessuna distinzione sarà inoltre stabilita sulla base dello statuto politico, giuridico o internazionale del Paese o del territorio cui una persona appartiene, sia che tale Paese o territorio sia indipendente, o sottoposto ad amministrazione fiduciaria o non autonomo, o soggetto a qualsiasi altra limitazione di sovranità.
Articolo 3 - Ogni individuo ha diritto alla vita, alla libertà e alla sicurezza della propria persona.
Non tutti gli stati aderenti all’Onu hanno sottoscritto questa dichiarazione. Gli stati islamici ne hanno elaborata una diversa, la dichiarazione Islamica dei Diritti Umani – che ovviamente non è più universale. L’Italia ha firmato la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani. Ma la nostra legge attribuisce ancora oggi, nel 2014, i diritti di cittadinanza soltanto per diritto di sangue. Cioè soltanto i discendenti di Italiani hanno il diritto alla cittadinanza italiana. Altri possono avere il permesso di residenza, o il diritto di residenza se si tratta di cittadini dell’Unione Europea: ma non il diritto di cittadinanza, neppure se sono nati in Italia. E a chi non ha diritto di cittadinanza anche l’Italia può negare libertà personali: gli immigrati clandestini per esempio vengono rinchiusi in Centri di Identificazione ed Espulsione per mesi e anni.
L’adesione all’ONU e alla sua carta dei diritti non cambia il modo di operare degli stati. Questo non riguarda soltanto l’Italia: così fan tutti, anche gli altri stati. A fronte dell’adesione a grandi principi universali, non c’è né organizzazione né collaborazione sovranazionale che riesca a garantire i diritti umani di chi è perseguitato, o deve migrare per sopravvivere, e non può avere la protezione del proprio stato. Sperabilmente si costruiranno organizzazioni sovranazionali più efficienti, col potere di equilibrare il mondo, prevenire i conflitti, aumentare la collaborazione fra tutti gli stati e tutti i popoli, ma per ora dobbiamo contare sugli stati nazionali, perciò occorre evitare che gli stati nazionali definiscano la nazione in modo da togliere i diritti di cittadinanza a una parte della propria popolazione, depredarla, deportarla, espellerla, sterminarla, come è successo a centinaia di milioni di persone nella ‘civilissima’ Europa negli ultimi cento anni.
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