La struttura economica e demografica generale della Cina sta cambiando rapidamente, con grandi effetti sui rapporti fra governi locali e governo centrale per quanto riguarda fisco, finanze, allineamento d’interessi, peso politico.
Nonostante la rapida industrializzazione dei decenni dopo la morte di Mao, in Cina il 46% della popolazione vive ancora nelle campagne ed ha un livello di vita decisamente inferiore a quello degli abitanti delle città. Un altro dato indicativo dello stato di insufficiente sviluppo dell’economia cinese rispetto ai bisogni della popolazione è la percentuale di PIL destinata ai consumi delle famiglie: è soltanto il 34%, contro il 70 % degli Stati Uniti, il 61% del Giappone, il 57% della Germania, paese che, come la Cina, produce tantissimo per l’esportazione ed ha la bilancia commerciale in grande attivo. Il terzo dato fondamentale è lo sviluppo demografico. La politica del figlio unico obbligatorio e il processo di urbanizzazione hanno fatto sì che la Cina abbia oggi un tasso di natalità fra i più bassi al mondo, per cui nei prossimi decenni la percentuale di popolazione in pensione aumenterà grandemente rispetto alla popolazione attiva. Il governo ha già allentato la politica demografica, permettendo due figli anziché uno ai genitori che sono già figli unici, ma questo non eviterà la contrazione della popolazione attiva nei prossimi decenni.
Considerando che la situazione economica globale non permette alla Cina di continuare a crescere soltanto con le esportazioni a basso costo e che nei prossimi decenni un numero crescente di anziani dovrà poter consumare senza produrre, il governo cinese deve riuscire a creare le condizioni per aumentare velocemente i consumi interni senza squilibrare tutto il sistema dei prezzi e dei costi, migliorando le condizioni di vita della popolazione che abita nelle campagne ed è intrappolata in una produzione agricola che ha poca possibilità di crescita. Per questo il governo attua da anni una politica di massiccia costruzione di centri urbani e di infrastrutture di trasporto e comunicazione in zone dell’interno, ancora quasi esclusivamente agricole, con l’obbiettivo di portare la percentuale di popolazione urbana dal 54% al 70% entro il 2030, aumentando di pari passo la produzione nell’industria e nei servizi, mentre la produzione agricola sarà modernizzata per aumentare la produttività per addetto.
Questo significa che 230 milioni di persone dovrebbero trasferirsi dalle campagne nelle nuove città nei prossimi 15 anni, cambiando stile di vita, di lavoro, di consumi! Negli Stati Uniti, per avere un confronto, il passaggio dal 54% al 70% di popolazione urbana ha richiesto 45 anni.
È un progetto di enormi proporzioni e molto difficile, che potrebbe avere anche effetti indesiderati nel quadro politico, sociale, economico generale. Per questo il governo cinese serra i ranghi, reprime la corruzione e la possibile resistenza passiva o attiva nei centri di potere che si sono consolidati negli scorsi decenni, e sembra voler puntare sul nazionalismo per alimentare la coesione sociale in questo difficile passaggio. Noi Europei, che ben conosciamo i rischi del nazionalismo nelle fasi di rapida transizione sociale ed economica, possiamo soltanto augurarci che questa transizione riesca ai Cinesi meglio di quanto è riuscita a noi, che nell’affrontarla abbiamo originato due guerre mondiali. Ovviamente le condizioni geopolitiche di un grande paese-continente come la Cina, con un unico governo e una lunga tradizione di relativa coesione culturale, sono ben diverse da quella dell’Europa del ‘900, divisa fra potenze rivali che avevano sviluppato culture e lingue diverse. Ma i rischi sono tanti, e sarà affascinante seguire l’evoluzione e la gestione del progetto.
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