Da un’analisi di Reva Bhalla per Strategic Forecasting
Nel giugno 1919 Damat Ferid Pasha, gran visir di un ormai decadente Impero Ottomano, era su una nave diretta in Francia. L’anziano politico appariva energico e autorevole, col il suo fez rosso e i perfetti baffi a manubrio, mentre leggeva il memorandum che avrebbe presentato alle forze alleate al Quai d’Orsay. Incurante dell’esito della guerra, a Parigi Damat Ferid rivendicò la piena sovranità turca sulla Mezzaluna fertile e su tutta la regione che corrisponde all’attuale Iraq e Siria, dai monti Zagros al Mediterraneo, opponendosi con molta veemenza alla proposta di affidare quei territori alle potenze mandatarie. Le potenze occidentali vincitrici ascoltarono incredule queste rivendicazioni che non tenevano minimamente conto della realtà fattuale, ignorarono le richieste e proseguirono alla spartizione delle spoglie dell’Impero Ottomano.
Quello cui assistiamo oggi sembra una riedizione di quanto avvenuto un secolo fa: Ankara sta nuovamente cercando l’appoggio occidentale per ristabilire – seppur indirettamente – il controllo turco sulla Mezzaluna fertile, senza tener conto della realtà sul terreno. E di nuovo l’Occidente appare incredulo di fronte a un paese che, dopo aver contribuito alla nascita dell’ISIS per rovesciare Assad, mantiene una posizione ambigua di fronte all’avanzata dello Stato Islamico.
L’area che gli Ottomani chiamavano vilayet di Mosul – in rosso nella mappa a destra – è sempre stata contesa fra Persiani e Turchi, ed è spesso stata teatro di violenze. L’area è abitata da diverse etnie: curdi, arabi, turcomanni, yazidi, assiri-caldei ed ebrei. Dopo la prima guerra mondiale i Turchi tentarono senza successo di mantenere il controllo sulla regione, per paura che gli Inglesi sfruttassero il separatismo curdo per indebolire la Turchia. Dal punto di vista delle potenze mandatarie che si divisero le zone di influenza nell’ex Impero Ottomano (Francia e Gran Bretagna), l’ex vilayet di Mosul era un perfetto cuscinetto per prevenire ogni possibile futura espansione della Turchia in Asia minore e in Mesopotamia. Ma, soprattutto, il vilayet di Mosul aveva grande importanza strategica per il petrolio.
Sin dall’antichità circolano storie sui fuochi eterni a Baba Gurgur – vicino a Kirkuk – che fuoriuscivano dalle fessure nelle rocce, là dove nafta e gas affioravano in superficie. All’inizio del XX secolo Londra radunò i migliori geologi del mondo per esaminare le potenzialità dei giacimenti. Il 14 ottobre del 1927 il destino di Kirkuk cambiò: dalla terra scaturì un getto alto 43 metri che in poche ore inondò la terra circostante. Era l’inizio di una nuova era, e la situazione divenne davvero scottante. Per indebolire la maggioranza curda gli Inglesi chiamarono gli Arabi a lavorare allo sviluppo del giacimento, in modo da invertire gli equilibri etnici. Il processo di arabizzazione della regione accelerò dopo il colpo di stato del 1968 che portò al potere il partito Baath in Iraq. Vennero emanate leggi per spingere i Curdi a vendere le proprietà e a lasciare la regione, la lingua curda venne sostituita con la lingua araba, e il processo terminò con la campagna al-Anfal, quando Saddam sterminò decine di migliaia di Curdi con armi chimiche. Soltanto dopo la guerra del 2003 i Curdi ricominciarono a popolare la regione.
Negli ultimi anni il Kurdistan iracheno ha potuto continuare lo sviluppo economico grazie al livello di sicurezza garantito dalle milizie Peshmerga, mentre il resto del paese precipitava nel caos. Le grandi aziende energetiche estere hanno iniziato a stringere accordi direttamente con il Governo Regionale Curdo. Dopo la fuga dell’esercito iracheno di fronte all’ISIS, i Peshmerga, unico bastione contro l’avanzata degli islamisti radicali, hanno preso possesso dei ricchissimi giacimenti di Kirkuk. È chiaro che Baghdad, così come le tribù sunnite del nord dell’Iraq, non vede di buon occhio questa situazione e farà di tutto per riprendersi – almeno in parte – il controllo dei giacimenti di Kirkuk.
In questa situazione che ruolo può svolgere la Turchia? A differenza degli USA, che hanno un orizzonte limitato e si concentrano sulla lotta all’ISIS, la Turchia dovrà fare i conti con la realtà sul terreno nei prossimi anni. Perciò prima di offrire piena collaborazione nella lotta contro l’ISIS Ankara vuole ottenere da Washington il pieno riconoscimento della propria egemonia nella regione – che passa attraverso l’insediamento di governi amici in Siria e Iraq. Ma l’ambiguità che la Turchia ha mostrato verso l’ISIS le ha alienato la simpatia di molti in Occidente.
Inoltre il tallone d’Achille del neo-ottomanesimo turco è la presenza dei Curdi. Ora che lo Stato Islamico è quasi riuscito a conquistare Kobane, al confine con la Turchia, Ankara potrebbe trovarsi a dover inviare le truppe di terra a combattere fianco a fianco con in miliziani curdi del PKK – numerosi nel Rojava – che vorrebbe invece annientare. Anche in Iraq la Turchia sta cercando di ottenere il riconoscimento di diritti esclusivi sull’energia della regione di Mosul, per mettere a tacere i sogni indipendentisti curdi.
Nell’attesa che i suoi diritti all’egemonia regionale vengano riconosciuti, la Turchia fa proclami e magniloquenti minacce di intervento, cui pare non seguire nessuna azione. Come nel 1919.
Nei prossimi mesi gli sforzi per bloccare le spinte indipendentiste curde aumenteranno. Sono molti gli attori regionali che tenteranno di inserirsi nella vicenda per difendere i propri interessi, dalle tribù sunnite e turcomanne che vogliono parte dei proventi del petrolio, all’Iran degli ayatollah, interessato a tenere a bada l’espansionismo turco.
La competizione per il controllo del Kurdistan iracheno è destinata a diventare più intensa. Resta da vedere chi riuscirà a spuntarla.
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