La geopolitica è per definizione l’elemento stabile delle relazioni internazionali: la posizione geografica delle regioni non varia, le caratteristiche delle loro economie e delle loro popolazioni variano poco e molto lentamente. Ma possono variare, e allora più o meno lentamente cambia la geopolitica di intere regioni. La scoperta delle Americhe e lo sviluppo dei traffici atlantici, ad esempio, spostarono il baricentro del mondo occidentale dal Mediterraneo all’Atlantico, dando inizio a un’epoca storica caratterizzata da una realtà geopolitica globale radicalmente diversa da quella precedente.
Robert Kagan argomenta che il Medio Oriente sta subendo una lenta ma chiara trasformazione geopolitica, perché l’interesse degli Stati Uniti e del mondo occidentale per gli idrocarburi della regione sta scemando, mentre aumenta molto la necessità di idrocarburi della Cina e dell’India. Per questo il baricentro geopolitico del Medio Oriente si sta spostando dal Mediterraneo all’Oceano Indiano.
Di seguito proponiamo alcuni passaggi del testo di Robert Kagan.
“Per decenni il Golfo Persico è stato uno degli interessi primari della politica estera americana, un luogo cruciale per l’economia degli Stati Uniti. L’economia americana è la grande economia del petrolio e dell’auto, propria dell’epoca moderna, in cui l’intero continente è collegato da lunghe autostrade interstatali. Il Golfo Persico, con il suo petrolio, era centrale per quel modello di sviluppo. Ma ora rappresenta un interesse sempre più secondario per gli Stati Uniti: una regione importante per il benessere degli alleati, per il commercio e il sistema economico mondiale in generale, ma non più fondamentale per gli Stati Uniti, malgrado la guerra allo Stato Islamico. Anche se gli Usa stanno ancora importando petrolio dalla regione del Golfo, la realtà è che nei decenni futuri avranno molte più alternative energetiche, sia al loro interno sia nel continente americano.
Mentre gli Stati Uniti avranno sempre meno bisogno del petrolio mediorientale, il Medio Oriente sarà consumato ancora per anni dal caos politico che si è scatenato al suo interno. Quando il mondo arabo aveva per lo più forti governi autoritari, era facile per l’America esercitare la propria influenza; era una questione diplomatica, che si risolveva nel negoziare trattati di pace, stringere accordi segreti e stabilire rapporti diplomatici tra Israele e alcuni dei suoi vicini. In fin dei conti c’era un solo interlocutore per ogni paese: il dittatore o il monarca al potere. Ma a chi rivolgersi in questo momento a Tripoli, Sanaa o Damasco? È difficile riuscire a esercitare influenza su un paese quando non è possibile identificare chi sia al potere.
La potenza americana, specie quella militare, può molto. Ma c’è una cosa che non può fare, come ha dimostrato un decennio passato in Afghanistan e in Iraq: ricostruire dall’interno complesse e frammentate società islamiche. E ricostruire società dall’interno sarà la principale sfida cui dovrà far fronte il mondo arabo per almeno i prossimi cinque anni. Così l’America, nonostante il suo ultimo intervento militare, diviene sempre meno importante per la regione e la regione cessa di rappresentare l’interesse principale dell’America.
Nel contesto dei lenti cambiamenti che caratterizzano la geopolitica, gli Stati Uniti si stanno allontanando dal Medio Oriente, mentre il Medio Oriente stesso si sta progressivamente dissolvendo nell’area del Grande Oceano Indiano. Mentre l’interesse degli Stati Uniti per il petrolio mediorientale diminuisce, cresce quello di Cina e India, che si troveranno dunque a dover gestire l’evoluzione in atto nel Medio Oriente. Guidata da una costante politica di reperimento delle risorse, la Cina non solo è sempre più coinvolta in accordi energetici con l’Arabia Saudita, l’Iraq e l’Iran, ma sta anche cercando di costruire, gestire o contribuire a finanziare terminali e porti in Tanzania e in Pakistan per trasportare merci dalla costa occidentale dell’Oceano Indiano a quella orientale, da dove raggiungeranno la Cina stessa. Intanto, l’Oman sta progettando di costruire strade e oleodotti che raggiungano i paesi sullo stretto di Hormuz evitando lo stretto stesso, e Cina e India hanno piani visionari che prevedono di collegare con un oleodotto i paesi dell’Asia Centrale − ricchi di risorse energetiche ma senza sbocchi sul mare − alla Cina occidentale e all’Oceano Indiano.
Nel contesto di una tale evoluzione strategica della geografia della prima metà del XXI secolo, il Medio Oriente diviene poco a poco un mondo meno definito da commerci e conflitti interni e sempre più da conflitti e commerci che abbracciano l’intera costa meridionale del super continente eurasiatico, con collegamenti tra i giacimenti di gas e di petrolio del Golfo Persico e i centri urbani popolati dalle classi medie del subcontinente indiano e dell’Asia Orientale. In uno scenario del genere il Medio Oriente, inteso come regione ben definita e a se stante come è stata durante il XX secolo, significa meno di quanto significasse un tempo.
Obama non è stato irresponsabile rifiutando di lasciarsi coinvolgere maggiormente nel caos settario della Siria e respingendo l’idea di un’azione militare contro le strutture nucleari iraniane. La sua presidenza è semplicemente un segno dei tempi: un segno dei limiti del potere statunitense e dei ridimensionati interessi degli Stati Uniti in Medio Oriente, fatta eccezione per il terrorismo. L’apertura all’Iran, come dimostrato dall’accordo provvisorio riguardo il programma nucleare iraniano, è parte di questo cambiamento”.
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