Sì, je suis Charlie

19/01/2015

In questi giorni è quasi impossibile incontrare amici o conoscenti, aprire un giornale o una newsletter online, accendere la radio o la TV senza trovarsi coinvolti in un dibattito sui limiti della libertà di espressione, prendendo spunto dal ‘caso’ Charlie-Hebdo. Questa reazione collettiva alla strage islamista a Parigi mi ricorda i tempi − non tanto lontani − in cui, davanti a casi di stupro, si discuteva di quanto fosse provocante l’aspetto e il comportamento della donna stuprata. Così la violenza dello stupratore veniva sottratta alla discussione e sostanzialmente accettata.  ‘Gli uomini sono uomini’… era la tipica frase con cui i benpensanti finivano col condannare la vittima, anziché l’aggressore.

No, non apprezzavo Charlie-Hebdo negli anni ’60, non sapevo che ancora esistesse e non mi sarei minimamente preoccupata se avesse chiuso i battenti per mancanza di lettori. Ma oggi sono Charlie, perché questo significa far sapere, a chi vuole imporci idee e comportamenti con la violenza, che troverà opposizione forte e determinata anche in noi, anche in me.

In questi giorni noto con grande rammarico quante persone sostengono che il ‘rispetto’ debba essere stabilito per legge, concordando così sostanzialmente con chi ci vuole imporre la moralità con la sua legge. Vogliamo davvero lo stato etico, cioè lo stato che sceglie quali idee e quali fedi debbano essere rispettate, imponendoci il rispetto per legge? Non sappiamo proprio che farcene della libertà?

Libertà è responsabilità: la persona si assume il compito di valutare e scegliere credenze e comportamenti, senza esigere che le proprie scelte siano protette o imposte dallo stato. Credere nella libertà significa credere che soltanto il principio di responsabilità personale – non la legge imposta dall’alto − permette alle società la convivenza pacifica e la lenta trasformazione non violenta attraverso le varie vicende storiche.

Cercare e sottolineare le ‘colpe’ delle vittime – in questo caso di Charlie − è un modo per proteggerci dalla paura. Pensare che la vittima ‘se la sia cercata’ significa pensare che invece noi siamo al sicuro, se ci comportiamo in modo diverso. Ma la storia insegna che la violenza di gruppi animati da ideologie totalitarie non risparmia nessuno: prima o poi ci obbliga a diventare vittime o assassini. È l’ideologia totalitaria che va combattuta con determinazione al suo apparire, anche con lo sberleffo, prima che diventi – ahimè – una cosa davvero seria. Cercare di capirla e di giustificarla con l’irriverenza blasfema di alcune vittime è un ben inutile esercizio. Peggio ancora è giustificarla o sottovalutarla quando assassina gli ebrei o altri islamici − come fa da decenni l’islamismo − tanto non tocca noi.

Presto è il Giorno della Memoria, il cui scopo è proprio farci riflettere sull’orrore cui ci hanno portato le ideologie totalitarie nella storia. Il nazismo negli anni ’30-40, proprio come l’islamismo oggi, ha fatto dei propri seguaci – tutti quanti uomini comuni, non mostri venuti da un altro pianeta e da un’altra storia − una massa di assassini, che hanno portato alla distruzione sia sé stessi sia gli innocenti che vivevano attorno a loro. Ce lo siamo già dimenticato, o non l’abbiamo proprio ancora capito?

 

Laura Camis de Fonseca

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