Da un articolo di Ian Morris pubblicato su Strategic Forecasting l’11 febbraio 2015
Si parla molto del libro dell’economista francese Piketty, “Il capitale nel XXI secolo”, che ha avuto un grandissimo successo e ha venduto oltre 1,5 milioni di copie. Piketty sostiene che, poiché i rendimenti sui capitali sono attualmente superiori alla crescita dell’economia reale, è matematicamente certo che la diseguaglianza sociale non potrà che aumentare negli anni a venire. Sembra così confermata la previsione che “i ricchi saranno sempre più ricchi e i poveri saranno sempre più poveri.” E questo perché, scrive Piketty, “il capitalismo genera diseguaglianze arbitrarie e insostenibili che minano la meritocrazia su cui si reggono le società democratiche”. La questione non è da prendere sottogamba: nel XX secolo la rottura delle strutture di classe e la modifica sostanziale dei modelli di eccessiva concentrazione della ricchezza portò a due tragiche guerre mondiali. Ora c’è il rischio che si precipiti nuovamente nell’instabilità, nell’estremismo e nella violenza per l’aumento delle diseguaglianze. Per questo Piketty auspica un deciso intervento dello stato per ripristinare un migliore equilibrio e garantire maggiore stabilità.
Ma è proprio così? Proviamo a soffermarci sul caso della Cina, dove Piketty ha presentato recentemente il suo libro, con grande successo. In Cina il livello di disuguaglianza ai tempi di Mao era ai minimi storici, ora è molto più alto. Le disuguaglianze di reddito e di ricchezza vengono abitualmente misurate col coefficiente di Gini. Si tratta di un numero che varia da 0 a 1: un coefficiente 0 significa che non c’è nessuna differenza fra il reddito (o la ricchezza accumulata, a seconda di quale parametro si misuri) dei singoli cittadini di uno stato: tutti hanno esattamente lo stesso reddito (o la stessa ricchezza). Il coefficiente 1 significa che tutto il reddito (o tutta la ricchezza) dello stato vanno a una sola persona. Se il coefficiente di Gini aumenta, significa che aumenta la diseguaglianza - e viceversa. In Cina il coefficiente di Gini è passato dallo 0,31 dei primi anni ’70 allo 0,50 del 2003 per scendere poi allo 0,47. Tuttavia la leadership cinese non sembra propensa a tornare al modello economico socialista, ma rimane convinta della bontà delle parole del leader Deng Xiaoping: “Non è importante che il gatto sia bianco o nero, ma che acchiappi il topo”. Tradotto in termini economici, significa che l’economia di mercato genera anche diseguaglianze, ma è il prezzo da pagare per uscire dalla povertà.
Piketty ha raccolto una enorme mole di dati relativi agli ultimi 250 anni, cioè dagli inizi della società industriale. Ma per avere una visione più generale occorre spingersi più indietro nel tempo e analizzare l’evoluzione di diversi sistemi economici. Ogni sistema economico-sociale è caratterizzato dall’uso precipuo di un certo tipo di energia, e sviluppa anche una cultura propria, una propria civiltà. Il passaggio da un sistema a un altro è sempre molto difficile, perché il vecchio sistema entra in crisi e quello nuovo ancora non sprigiona i suoi effetti positivi. È possibile che attualmente attraversiamo una di questa fasi di transizione da un sistema all’altro?
La civiltà pre-agricola
Nelle società pre-agricole, basate sulla caccia e sulla raccolta, gli uomini si sostentavano con quello che trovavano in natura. L’unica energia utilizzata era quella biologica degli uomini stessi. Per sopravvivere gli uomini dovevano muoversi rapidamente sul territorio in piccoli gruppi, perché i grandi gruppi erano meno rapidi negli spostamenti, nella rincorsa e nella fuga, perciò meno efficienti. La società pre-agricola aveva un’economia di sussistenza, non c’era quasi accumulo di beni e quindi la diseguaglianza era quasi nulla – secondo gli economisti, poteva essere dello 0,25 sulla scala di Gini. I cacciatori raccoglitori erano tutti poveri, senza molte differenze.
La civiltà agricola
Con lo sviluppo dell’agricoltura attorno al 9600 a.C. il sistema economico mutò profondamente (vedi il video). La civiltà agricola sfruttava anche l’energia dell’acqua e quella biologica degli animali da lavoro e da allevamento. Nell’arco di alcuni millenni l’agricoltura si diffuse dalla Mezzaluna Fertile ad altre aree del mondo. Vennero costruiti magazzini per conservare il cibo e grazie al surplus agricolo parte della popolazione poté dedicarsi ad altre attività: la difesa e l’amministrazione delle scorte di cibo, l’artigianato. Nacque una prima divisione del lavoro e la società iniziò a stratificarsi in una struttura piramidale al cui vertice sedevano re e guerrieri, più forti e capaci di imporre il proprio potere, alla base si trovavano contadini e schiavi. Le popolazioni che lavoravano la terra in modo sedentario erano avvantaggiate rispetto ai gruppi nomadi, che diminuirono sostanzialmente. Il nuovo sistema economico favorì l’aumento del reddito e l’espansione demografica: la popolazione globale passò da circa 6 milioni di persone nel 10.000 a.C. a circa 250 milioni nel 1 millennio a.C. Aumentarono le diseguaglianze, fino a un livello pari allo 0,45 circa sulla scala di Gini, ma la ricchezza totale continuò a crescere.
La civiltà industriale
L’invenzione della macchina a vapore e la conseguente meccanizzazione, favorita dalla rivoluzione tecnologica e dall’utilizzo dei combustibili fossili, fece aumentare esponenzialmente la produzione e la ricchezza globale. Questo favorì la rapida crescita della popolazione – che dal 1800 a oggi è passata da 1 a 7 miliardi! – e l’aumento dei salari. Per prosperare l’economia industriale ha bisogno non soltanto di produrre grandi quantità di merci di qualità sempre migliore, ma anche di persone che le possano acquistare. In altre parole, ha bisogno del mercato. Per questo le fosche previsioni del 1800 sull’impoverimento e la neo-schiavitù delle popolazioni non si avverarono: non c’era alcun interesse a mantenere i lavoratori delle fabbriche nell’indigenza, perché le persone erano non soltanto operai ma anche consumatori. Di conseguenza i salari salirono, la povertà diminuì e gradualmente nacque la società dei consumi.
Gli esempi fallimentari del comunismo e del fascismo hanno dimostrato che l’economia di mercato basata sul libero scambio funziona molto meglio dell’economia statale pianificata o corporativa, dunque favorisce l’aumento della ricchezza generale. Ma c’è un rovescio della medaglia: si generano tensioni sociali forti quando chi detiene la ricchezza ottiene il potere politico e lo usa per aumentare troppo il livello di disuguaglianza, per una visione miope della propria convenienza. L’equilibrio e il consenso sociale nella società di mercato sono garantiti dalla presenza di una folta classe media capace di assorbire la produzione di beni e servizi. L’eccessiva diseguaglianza, invece, rischia di uccidere “la gallina delle uova d’oro”.
Come individuare il giusto equilibrio? Difficile a dirsi. Sembrerebbe ottimale un livello compreso fra lo 0,25 e lo 0,35 del coefficiente di Gini, ma dipende anche dalla cultura e dalle aspettative dei cittadini. I governi intervengono con misure fiscali per ridistribuire la ricchezza e diminuire le diseguaglianze, in modo da garantire l’equilibrio a lungo termine. Ma se le misure diventano eccessive e opprimenti, se la mano pubblica interviene troppo pesantemente nell’economia, soffoca la libera iniziativa e frena la crescita – e gli esempi di questo tipo nella società contemporanea non mancano.
Negli anni ’70 nei paesi OECD il coefficiente di Gini era dello 0,26, ma nel 2012 è salito a 0,31 circa. È questa la causa dei malcontenti e dell’instabilità in Occidente?
Alcuni fattori, dice Morris, potrebbero essere attualmente all’opera per destabilizzare la società in cui viviamo. Probabilmente ci troviamo di fronte a cambiamenti epocali.
1. I cambiamenti demografici. L’enorme aumento della popolazione pone nuove sfide. Ora sono poche le aree del globo non abitate, e ci sono costanti rapporti economici fra tutte le aree del pianeta. Per questo non possiamo più ragionare in termini locali: occorre riflettere sul problema della diseguaglianza a livello planetario, e trovare soluzioni globali a problemi che riguardano tutti i cittadini del mondo. Negli ultimi 50 anni Cina, Brasile, Russia, India − e altri paesi − hanno avuto una crescita rapidissima, che ha contribuito a far calare le diseguaglianze. È vero che i paesi avanzati sono diventati ancora più ricchi, ma è altrettanto vero che molti paesi poveri sono usciti velocemente dalla povertà. Molto probabilmente questa tendenza rimarrà invariata negli anni a venire.
2. Uno scossone nella domanda. Secondo l’economista Michael Spence dopo la crisi economica la domanda mondiale è calata di circa mille miliardi di dollari. Difficilmente l’Occidente potrà riprendere a consumare come prima della crisi, anche perché una parte dei consumi era alimentata a debito. Ma non ci dovremmo preoccupare eccessivamente: nuovi paesi in Asia e nel resto del mondo stanno rapidamente crescendo, e potrebbero presto riuscire ad assorbire la produzione in eccesso.
3. La stratificazione globale. Durante i grandi cambiamenti ci sono sempre vincitori e perdenti. In passato i regnanti sconfitti potevano andare incontro alla morte oppure cercarsi uno spazio nel nuovo assetto politico-economico. Per quanto diverse siano oggi le cose, alcuni aspetti sono rimasti invariati. La globalizzazione per qualcuno ha rappresentato un’occasione straordinaria per entrare a far parte del club dei paesi ricchi – pensiamo ad esempio alle Tigri Asiatiche e alla Cina – mentre altri paesi sono usciti sconfitti dalla durissima competizione globale. Se a questo si aggiunge che la popolazione cresce molto più rapidamente dei nuovi posti di lavoro, in termini assoluti il numero delle persone che ‘rimangono indietro’ nell’intero globo rischia di essere enorme.
4. L’alba di una rivoluzione epocale? Esistono ora nuove tecnologie che rendono sempre più labile il confine fra la macchina e la mente umana. La realtà virtuale potrebbe forse costituire la più grande rivoluzione nella lunga storia dell’uomo.
Come sarà il mondo del futuro? Quali saranno i meccanismi utilizzabili per combattere la diseguaglianza fra 100 anni? Non lo sappiamo, ma sappiamo con certezza che le attuali soluzioni saranno allora del tutto obsolete.
A cura di Davide Meinero
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