Il 18 febbraio scorso il Consiglio di Sicurezza della Nazioni Unite ha bocciato l’ipotesi di un intervento militare in Libia, sollecitando invece la ricerca di una soluzione diplomatica. Il governo egiziano e il ministro degli Esteri libico, Mohammed al-Dairi, hanno richiesto all’ONU di revocare l’embargo sulle armi per il governo libico riconosciuto dalla comunità internazionale, quello di Tobruk. I due paesi hanno anche chiesto di imporre il blocco navale lungo le coste delle aree in cui sono presenti i gruppi affiliati all’ISIS. È prevalsa la linea sostenuta da Qatar, Algeria e Turchia, appoggiata anche da Stati Uniti, Germania e Regno Unito. La posizione degli Stati Uniti era chiara da giorni: Washington si è schierata apertamente contro attacchi aerei unilaterali, convinta che non avrebbero fatto altro che peggiorare la situazione e scatenare ritorsioni contro ostaggi innocenti. Gli USA si sono mostrati contrari anche a lasciare che il Cairo e i suoi alleati conducano le operazioni da soli, poiché temono che vengano colpiti anche gruppi più moderati o gruppi di opposizione.
A quattro anni dall’inizio della rivolta anti-Gheddafi, la Libia è nel caos. La presenza di centinaia di milizie è sintomo della disgregazione interna, non ne è la causa. Gli sforzi internazionali contro i gruppi jihadisti come lo Stato Islamico potranno far poco per sanare le ferite politiche, ideologiche e tribali che lacerano il Paese. I paesi confinanti come Algeria ed Egitto non hanno i mezzi per risolvere da soli i problemi della Libia, anche se volessero. Quelli che potrebbero forse riuscirci – l’Unione Europea, la NATO e una coalizione internazionale – non vogliono assumersi questo onere. La comunità internazionale pare propensa a lasciare che la Libia e i suoi vicini facciano da soli, per lavorare poi con chi risulterà vincitore. Ma per noi Italiani in particolare l’imposizione di un blocco navale alle coste libiche potrebbe rendersi prima o poi necessario.
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