In Myanmar grandi gruppi nazionalisti chiedono di togliere la cittadinanza alla minoranza Rohingya, che è islamica, di limitarne la crescita demografica, di proibire i matrimoni misti e le conversioni alla religione della maggioranza, che è buddista.
Proprio come succedeva in Europa poco meno di 100 anni fa nei confronti degli Ebrei. Le richieste sono state trasformate in proposte di legge attualmente in discussione. I tribunali condannano alla reclusione le persone che osano criticare l’intolleranza dei gruppi buddisti, come lo scrittore Htin Lin Oo.
Ma questa non è l’unica tensione interetnica: sulle montagne al nord-est del Paese le truppe del governo si scontrano sovente con le milizie armate delle minoranze Kokang, Shan e Kachin.
Il nazionalismo buddista viene usato dal partito al governo come strumento di unificazione nazionalistica della popolazione, che è ufficialmente suddivisa in otto gruppi nazionali riconosciuti, a loro volta suddivisi in 135 sottogruppi etnici. Fin dall’indipendenza del 1948 il Paese è travagliato dalla guerriglia dei gruppi etnici minoritari contro il gruppo maggioritario dei Bamar. Il governo militare al potere dal 1962 ha cercato di risolvere il problema con la forza, respingendo le minoranze sulle montagne, vicino ai confini con la Cina.
Dal 2010 è in atto la transizione verso un governo civile, ed è iniziato il tentativo di creare un senso di coesione nazionale basato sull’ideologia, più che sull’etnia. Ma quale ideologia? Negli anni 30 i nazionalisti che rivendicavano l’indipendenza dalla Francia sostenevano che ‘essere Birmano significa essere buddista’. È buddista quasi il 90% della popolazione, il buddismo perciò è una base comune molto più ampia dell’etnia, essendo buddiste anche le minoranze etniche Shan, Rakhine, Mon e Karen. Il governo spera che fomentare un nazionalismo su base religiosa abbia un effetto unificante. Ha anche l’effetto di fare dei non-buddisti, cioè dei musulmani Rohingya, che sono circa il 4% della popolazione, i capri espiatori, gli esclusi, le vittime designate. I Rohingya sono concentrati soprattutto nella regione costiera occidentale di Rakhine, che confina con il Bangladesh: qui sono circa 1 milione su di una popolazione totale di 3 milioni. Gli islamici in Myanmar sono arrivati attraverso i secoli soprattutto dall’attuale Bangladesh, ma anche dalla Malesia, dall’Indonesia. Rakhine oggi è la regione di frontiera fra le popolazioni islamiche e quelle buddiste del sud est asiatico, come lo era la Spagna del XV secolo per i Cristiani d’Europa.
Ad animare i partiti nazionalisti buddisti sono soprattutto i monaci buddisti, il clero, che in birmano si chiama Sangha. Questi monaci sono numerosi, raggiungono ogni angolo del paese, ogni villaggio, spesso sono anche i maestri del villaggio. Costituiscono una rete sociale e politica capillare, che ora usa le tecnologie digitali più moderne per comunicare. Ma non è una rete gerarchica, quindi è soggetta a frammentazione. I politici e i militari corteggiano i Sangha con ogni tipo di favori, concedendo loro molti privilegi per averli alleati - ciò nonostante molti monaci animarono e animano le manifestazioni di protesta contro il governo (vedasi foto a lato) dal 1988 in poi. La costituzione del Myanmar riconosce una posizione speciale al buddismo in quanto religione maggioritaria, ma non la considera religione dello stato. Inoltre i monaci non possono candidarsi alle elezioni.
La persecuzione dei Rohingya non soltanto aliena al governo del Mynamar le simpatie internazionali, ma rischia anche di richiamare l’attenzione di gruppi Jihadisti nei paesi vicini, che potrebbero iniziare una guerriglia terroristica per sottrarre la regione di Rakhine al Myanmar, rendendola autonoma o accorpandola al Bangladesh. Il governo che ora solletica il nazionalismo buddista come arma per raccogliere consenso e unificare più gruppi etnici potrebbe ritrovarsi ad affrontare la secessione di parte del paese, nonché l’ira della Sangha.
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