Fino a 200 anni fa gli stati erano per lo più dinastici (‘proprietà’ di una famiglia) e multietnici, anche se con una spiccata tendenza a eliminare le minoranze religiose all’interno, per raggiungere un buon grado di coesione culturale, politica e sociale.
Parallelamente allo sviluppo della produzione industriale di massa, circa 200 anni fa si svilupparono le società di massa e gli stati nazionali, grandi bacini di produzione e di scambio, che avevano bisogno di una lingua e di una cultura comune, di infrastrutture e burocrazie unificate e coerenti (guardate il nostro video Il nazionalismo e la società industriale nell’Europa moderna).
Il nazionalismo, dapprima ideologia delle élite, divenne sentimento di massa grazie alla scuola di stato gratuita e obbligatoria, che non a caso venne istituita ovunque in Europa proprio nel periodo della produzione industriale di massa. La scuola fu – ed è – strumento di formazione del senso di appartenenza, di cittadinanza comune, di adesione alle istituzioni dello stato. Per questo fu strappata dagli stati moderni alle mani dei religiosi, che ne avevano avuto quasi l’esclusiva fino alla rivoluzione industriale (Qui, il nostro video Miti nazionali, coesione ed esclusione, negazione dei diritti).
Lo stato nazionale fu poi trasferito nelle colonie e nei protettorati in altri continenti e lasciato in eredità ai popoli africani e asiatici alla fine dell’epoca coloniale, dopo la seconda guerra mondiale, pochi decenni fa. Ma nelle società che non avevano vissuto la rivoluzione industriale e le fasi di sviluppo della società di massa, e che non avevano una lunga storia unitaria pregressa, lo stato nazionale non funzionò mai bene, né acquisì legittimità agli occhi degli abitanti. Le conseguenze si vedono chiaramente oggi in Medio Oriente, dove le guerre civili stanno disintegrando stati dai confini artificiosi, entro i quali convivono tribù e sette religiose diverse, che non si sentono affatto appartenenti alla stessa nazione e allo stesso destino.
In che direzione andiamo noi Europei? A cavallo fra lo stato nazionale e l’Unione Europea, viviamo contraddizioni potenzialmente feconde, ma non elaboriamo i principi di un nuovo stato sovranazionale europeo, non creiamo nuove istituzioni politiche: rammendiamo qua e là quelle vecchie, che però non reggono più alla pressione della nuova realtà. La nuova realtà non è interna all’Europa: è nel mondo intero, che è diventato piccolo. L’economia e la finanza non sono più né nazionali né occidentali: sono globali. Globale è l’informazione, la diffusione di pensieri, immagini e cifre. Globali e integrati sono i trasporti di persone e cose. Globali sono i costi e i prezzi dei prodotti base (commodities).Globali sono gli spostamenti di persone: i confini nazionali e quelli geografici (mari, catene montuose), non servono più da barriera per le migrazioni di popoli alla ricerca di salvezza o di benessere.
In questo scorcio di anno 2015 forse l’Europa troverà un accordo di base per suddividere al proprio interno le masse di rifugiati e di migranti in arrivo dall’Asia e dall’Africa, che probabilmente hanno dell’Europa una visione mitica di terra dove la vita è facile e felice. Ma perché questi immigrati o rifugiati abbiano un futuro in Europa occorre integrarli culturalmente ed economicamente. Occorre che conoscano, capiscano e accettino i nostri valori di base e le nostre istituzioni. Ma noi Italiani – abituati all’emigrazione non all’immigrazione − non abbiamo né princìpi, né programmi, né istituzioni pensate e organizzate per integrare gli immigrati: occorrerà provvedere, e provvedere in fretta, se non vogliamo vedere fra cinque o dieci anni la guerra civile anche nelle nostre strade.
La scuola giocherà necessariamente un ruolo fondamentale nell’integrazione dei tanti immigrati e nella trasformazione della nostra società, che è certa e inevitabile. Sarà capace di reggere questa enorme responsabilità? Anche le istituzioni private e le persone di buona volontà possono aiutare grandemente, e certamente vorranno aiutare. Ma occorre un progetto comune, concetti e finalità di base concordati fra gli stati d’Europa. Non occorrono soltanto case e sovvenzioni per far fronte all’emergenza, ma progetti di integrazione culturale, pre-condizione essenziale per l’integrazione economica e sociale. Cosa particolarmente difficile perché siamo noi stessi in una fase di transizione dagli stati nazionali − e dalle culture nazionali − allo stato e alla cultura sovranazionale europea.
Forse l’immigrazione di massa ci obbligherà ad affrettare i tempi di costruzione dell’unione politica europea?
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