Sociologi ed esperti di geopolitica continuano a riflettere sulla globalizzazione in atto e sulle sue ricadute politiche, anche attraverso articoli periodicamente pubblicati su siti di geopolitica.
Jay Ogilvy ipotizza che stiamo assistendo a un fenomeno di grandissima portata storica, che definisce Seconda Riforma: la Prima Riforma, quella originata con Lutero nel XVI secolo, dopo più di un secolo di scontri portò al declino del ruolo delle religioni nelle istituzioni sociali e avviò il periodo del predominio della politica. Le religioni rimasero presenti, ma con minore potere. La Seconda Riforma in atto vedrebbe il declino del potere della politica a favore dell’economia. La politica continuerà a essere presente, così come la religione, ma con minori poteri.
Così come il primato della politica non ha distrutto le istituzioni religiose, ma le ha relegate a un ruolo minore, le future istituzioni economiche che eserciteranno il massimo potere non cancelleranno le istituzioni politiche attuali, ma ne ridurranno il potere. Lo vediamo già accadere nelle attuali e ancora deboli istituzioni sovra-nazionali: il G8 o il G20 sono il luogo dove la politica viene a patti con le necessità dell’economia; l’Unione Europea già limita grandemente i poteri dei governi nel settore economico, in nome delle necessità o delle costrizioni dell’economia globale. Anche stati potenti e del tutto autonomi come gli USA debbono sviluppare una politica volta prioritariamente a non far perdere il primato e il mercato globale alle proprie grandi aziende. I radicali cambiamenti politici in atto nei paesi dell’America Latina, dal Venezuela all’Argentina al Brasile, sono conseguenze del declino delle loro economie e della necessità di diventare più competitivi sul mercato globale. In tutti i paesi del mondo l’opinione pubblica insorge contro i governi che non sanno procurare più sviluppo e più forza economica. Questo non significa che tutte le altre motivazioni di carattere ideologico non agiscano più nella società: razzismo, sessismo, nazionalismo, tribalismo, settarismo religioso, xenofobia persistono nelle culture (o inculture) delle popolazioni e vengono utilizzati nell’arena politica, ma preponderante è il desiderio di maggiore sviluppo tecnologico e di maggiore benessere economico. L’attuale reazione nazionalistica alla grande migrazione in Europa dai paesi del Medio Oriente e dell’Africa è più basata su preoccupazioni economiche (i migranti aumentano la competizione per il mercato del lavoro e per i sussidi sociali) che su preoccupazioni morali o politiche. Il primato dell’economia e dello sviluppo si riflette anche nell’opinione che le persone hanno dei diversi tipi di leader: pochi oggi professano ammirazione per i politici, mentre molti guardano con rispetto personaggi come Bill Gates o Mark Zuckenberg. Così prosperano ovunque nuovi politici che si presentano come anti-politici! Anche negli USA il successo di Donald Trump è il successo dell’anti-politica, della sfiducia diffusa nelle capacità dei politici di migliorare le condizioni di vita e di lavoro dei cittadini. Lo scrittore Mark Denner ha osservato recentemente che, mentre un tempo i politici americani utilizzavano le grandi aziende per favorire le proprie clientele politiche, oggi raccolgono il denaro dalle grandi aziende che li sostengono per spenderlo tutto in campagne televisive, cioè per trasferirlo ad altre grandi attività economiche!
Dice Parag Khanna: ‘man mano che la politica dipende di più dalle aziende globalizzate, la distinzione fra pubblico e privato si fa più vaga. Quando la cittadinanza offre pochi vantaggi, un ruolo nel ciclo economico può diventare più importante della cittadinanza’. […] ‘ La Russia non esporta più comunismo, l’America quasi non parla più di esportare la democrazia, la Cina ha adottato un modello di sviluppo basato sull’economia capitalistica: dall’Asia all’Africa non si parla che di affari, affari, affari’. […]‘ Il passaggio dalla mappa politica alla mappa dei collegamenti funzionali porta a superare ideologie moralistiche che non producono né giustizia né efficienza e favorisce un approccio utilitaristico per cui i governi non si sentono possessori del mondo, ma gestori di parti territoriali di un’unica civiltà globale.’
Philip Bobbitt mette in rilievo che già oggi il singolo stato non può difendere i propri cittadini da catastrofi atomiche, né la propria valuta dalla svalutazione, né il proprio territorio dal riscaldamento globale o da epidemie, né può escludere i propri cittadini dalle forme di comunicazione globale o dalle conseguenze delle crisi economiche globali.
Non sappiamo come cambieranno le istituzioni politiche degli stati, ma è certo che cambieranno, probabilmente attraverso un periodo di tensioni e conflitti. Bobbitt prevede un periodo in cui si accentueranno tre paradossi:
1-lo stato dovrà centralizzare di più il potere per essere efficiente, ma il potere reale di ogni singolo stato andrà indebolendosi progressivamente;
2-ci sarà più partecipazione pubblica al governo, ma tale partecipazione avrà sempre meno peso, i cittadini saranno coinvolti nei cambiamenti più come spettatori che come decisori;
3-lo stato assistenziale (welfare state) sarà progressivamente smantellato, ma aumenterà molto l’impegno dello stato nella protezione delle infrastrutture e dell’ambiente e nella prevenzione delle epidemie.
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