In The Perils of the Cosmopolitan Dream (Stratfor 17 agosto 2016) Jay Ogilvy riflette sul riemergere del tribalismo in tutte le sue forme (nazionalismo, politica identitaria, settarismo religioso) nella politica. L’ideologia socialcomunista aveva orientato la politica del XX secolo su di un asse destra-sinistra all’interno di tutti i paesi del mondo. Oggi invece nel dibattito politico, economico e sociale prevale la contrapposizione aperto-chiuso. L’aspirazione alla società aperta su scala globale, in cui gli individui si muovono con uguali diritti, si scontra con la rivendicazione di diritti basati sull’appartenenza originaria alla comunità.
Gli esempi sono lampanti: Trump negli Stati Uniti acquista consensi dicendo ‘il nostro credo è l’Americanismo, non il globalismo’, ma all’altro estremo dell’asse destra-sinistra Sanders gli fa eco con le sue tirate contro il commercio e la finanza globali. I politici populisti che stanno guadagnando consensi in tutti i paesi europei hanno in comune il rifiuto del commercio e della finanza globali e il timore degli immigrati, indipendentemente dal fatto che provengano da partiti storici di destra o di sinistra. La Brexit sarebbe stata impensabile 15 anni fa, eppure è avvenuta, nello sgomento generale: neppure i suoi sostenitori sembravano credere nella vittoria, non avevano un vero progetto alternativo e ora non sanno come muoversi nella realtà.
In tutto il mondo occidentale assistiamo a reazioni populiste contro il sogno cosmopolita, dice Ogilvy, il sogno che i popoli del mondo possano trascurare ciò che li divide e vivere insieme in pace, in una società multiculturale. Vediamo la frizione che si crea quando l’identità di gruppo è messa in gioco dagli effetti livellanti della globalizzazione.
Il sogno cosmopolita ha alla base una visione razionale e universale del mondo, come quella della scienza e della matematica. La realtà tribale non è universale ma bada al particolare, è molto emotiva e poco razionale. Apprezza visceralmente ciò che è vicino e teme ciò che è lontano. I cosmopoliti sottovalutano la forza emotiva del focolare e del piccolo gruppo. Non ricordano che proveniamo tutti da antenati che accudivano e difendevano il piccolo gruppo, altrimenti oggi noi non ci saremmo.
La tecnologia dei trasporti e delle comunicazioni oggi unifica fisicamente il mondo intero, ma la psicologia del gruppo chiede muri di difesa. L’aveva previsto Samuel Huntington nel libro ‘Lo scontro di civiltà e il nuovo ordine mondiale’ del 1996. Huntington prevedeva l’emergere di un ordine mondiale in cui nove centri di potere sarebbero stati in rivalità fra di loro, nove grandi culture mondiali da lui identificate come occidentale, latino-americana, ortodossa, africana, islamica, induista, buddista, giapponese e cinese. Alla radice di ognuna di queste culture c’è una specifica religione. I margini delle nove sfere culturali ed egemoniche si sovrappongono, ed è proprio in queste zone di sovrapposizione che si creano le maggiori frizioni.
Nella convinzione radicata e spontanea che la nostra cultura occidentale, razionalista e cosmopolita, sia la migliore, ci sentiamo certi che la forza della storia sia dalla nostra parte e sia inarrestabile. L’economia e la tecnologia ci hanno portato al successo per secoli e hanno costruito la nostra fiducia nell’inarrestabile progresso delle civiltà verso l’apertura. Ma, ammoniva Huntington, questa fiducia può rivelarsi falsa, perciò è pericolosa – oltre che immorale nel suo disprezzo per altre forme civiltà.
L’attuale scontro in atto con l’islam politico, avviato drammaticamente l’11 settembre del 2001, può essere interpretato come lo scontro finale di una civiltà morente contro la modernità trionfante, ma non dobbiamo sottovalutare la forza che anima ogni scontro: la legittima aspirazione di ogni gruppo a esser trattato con dignità e con attenzione ai suoi bisogni.
Se guardiamo al mondo nella sua interezza, lo sviluppo economico tecnologico e politico dei paesi che gravitano attorno all’Oceano Pacifico ci fa pensare che razionalismo e cosmopolitismo siano trionfanti. Ma è vero soltanto finché a reggere l’ondata di apertura cosmopolita è uno sviluppo economico impetuoso: là dove lo sviluppo economico si arresta riemergono le forze emotive che spingono i gruppi a chiudersi su basi identitarie. Sta accadendo proprio in Occidente, cioè nella cultura che è portabandiera del razionalismo cosmopolita.
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