La Brexit ci insegna a esser moderati nelle aspettative.
La storia dell’Europa unita inizia nel 1952 con la creazione della Comunità Economica del Carbone e dell’Acciaio (CECA) per mettere in comune la produzione di queste materie prime tra Francia, Italia, Germania Ovest, Belgio, Paesi Bassi e Lussemburgo. Nel 1946 Winston Churchill auspicava la nascita di “una sorta di Stati Uniti d’Europa”, idea accolta con entusiasmo e fervore. L’Europa era stata devastata da due guerre mondiali e nessuno voleva che tale orrore si ripetesse. L’attenzione del Continente si era quindi spostata dalle questioni militari all’obiettivo comune di prosperità economica.
I paesi fondatori volevano costruire “un’unione sempre più stretta”: dopo il completamento del Mercato Unico, nel 1992 è stata pianificata l’Unione Monetaria, con la speranza di creare un giorno una federazione politica di stati europei dall’Atlantico alla Russia. Ma il Regno Unito ha scelto una strada diversa: intuiti i rischi derivanti dalla cessione della propria sovranità, ha preferito limitarsi ai benefici generati dell’integrazione dei mercati.
Lo status del Regno Unito costituirà un nuovo precedente in Europa. L’UK manterrà la maggior parte dei benefici del mercato unico, ma introdurrà misure più restrittive sull’immigrazione e sulle scelte politiche. Gli euroscettici ne prenderanno nota e avanzeranno richieste analoghe. Gli stati riaffermeranno i propri interessi e si riprenderanno i poteri concessi all’Unione. Paesi che la pensano allo stesso modo e hanno interessi simili si allineeranno e l’Europa ritornerà alla configurazione precedente, più frammentata – e probabilmente più naturale.
L’esperienza europea deve far riflettere le altre unioni economiche su quali forze geopolitiche spingono all’integrazione e quali la ostacolano.
L’integrazione tra stati inizia con accordi di libero scambio, che possono diventare unioni doganali con dazi e mercati comuni che permettono la libera circolazione di manodopera, beni, servizi e capitali. A questo punto i blocchi possono attuare forme di integrazione estreme, come le unioni monetarie o le federazioni politiche, oppure no.
Ci sono altre sei unioni economiche al mondo oltre all’Unione Europea — il Mercato comune dell’America meridionale (Mercosur), il Consiglio di Cooperazione del Golfo (GCC), l’Associazione delle nazioni del sud-est asiatico (ASEAN), la Comunità dell’Africa orientale, l’Unione economica eurasiatica e l’Accordo nordamericano per il libero scambio (NAFTA). Le ragioni dietro alla formazione di questi blocchi sono diverse e possono includere o meno questioni relative alla sicurezza. Nel sud-est asiatico, un gruppo di piccoli stati schiacciati da un vicino più grande e potente (la Cina) tenta di rafforzarsi negoziando come un’unità economica. In Eurasia la Russia sfrutta un’alleanza economica per estendere la propria sfera di influenza. In Sud America, invece, il blocco serve per bilanciare le due potenze regionali (Brasile e Argentina).
Le unioni economiche possono facilitare lo sviluppo, come in Africa orientale, dove gli stati della Comunità tentano di superare i confini arbitrariamente imposti dalle potenze coloniali per sfruttare appieno il potenziale della regione dei Grandi Laghi. Ma una volta che i benefici generati si affievoliscono, le unioni da salvagenti si trasformano in camicie di forza, come si è verificato a livello del Mercosur, incapace di superare i propri regolamenti e di cercare sbocchi su nuovi mercati.
Per semplificare le questioni e mantenere la concentrazione degli stati membri sul vantaggio economico reciproco, i blocchi regionali tendono a mantenere l’integrazione economica separata dalla cooperazione in materia di sicurezza, che può richiedere la condivisione dei servizi di intelligence e delle risorse militari, fino alla creazione di alleanze vincolanti. Ciononostante le questioni relative alla sicurezza possono influenzare e talvolta compromettere l’unità dei blocchi regionali quando nella regione crescono le tensioni geopolitiche. Stati Uniti, Giappone e India, per esempio, hanno cercato di collaborare con l’ASEAN per controbilanciare gli sconfinamenti della marina cinese, ma il blocco stesso è diviso al proprio interno su come gestire le tensioni con Pechino. Benché tutte le parti facciano leva sulle infrastrutture economiche comuni per mitigare gli attriti, Filippine, Vietnam e Indonesia si trovano sempre ad affrontare la resistenza di paesi continentali più isolati come Laos e Cambogia, che possono permettersi di evitare qualsiasi confronto sui mari.
Sono le questioni relative alla sicurezza, più che l’integrazione economica, a tenere insieme il Consiglio di Cooperazione del Golfo. Il blocco mediorientale cerca di compensare l’inadeguatezza degli eserciti dei singoli stati membri combinando le forze contro il principale avversario geopolitico, l’Iran. Ma mentre gli stati del Golfo, dipendenti dal petrolio, tentano di diversificare le loro economie per poter sopravvivere, la concorrenza fra di loro minaccia di inasprirsi, dato che ogni stato lotta per ottenere l’ambito status di migliore paese della regione per gli investimenti internazionali.
L’Unione Europea insegna a esser cauti negli allargamenti. Gli stati di nuova adesione distolgono gli stati fondatori dai propri obiettivi, introducono nuovi problemi e trascinano il blocco in dispute politiche indesiderate. Il crollo dell’Unione Sovietica e l’allargamento dell’Unione Europea del 2004, che si è estesa a gran parte dei paesi dell’Europa centrale e orientale, ha originato una serie di nuove questioni relative al bilancio e all’immigrazione. Più il blocco è grande, più è difficile articolare un’economia estera coerente. Francia e Italia sarebbero molto più propense a riallacciare i rapporti con la Russia che ad ascoltare le richieste degli stati dell’Europa centrale e orientale, decisi a mantenere le sanzioni e ad armare le regioni al confine con la Russia. Il Mercosur preferirebbe non riunirsi affatto piuttosto che restare impantanato nel caos politico del Venezuela, ultimo arrivato, che dovrebbe assumere la presidenza di turno a breve. E il Vietnam, stanco di dover diluire le proprie posizioni all’interno dell’ASEAN per compiacere gli stati di nuova adesione, più cauti, sta cercando di rivedere le procedure dell’Associazione per superare il frustrante sistema di votazione all’unanimità.
Così come è in grado di unire, la geografia può dividere. Le condizioni geopolitiche europee sono diverse tra nord, sud, est e ovest, perciò è difficile per i ricchi paesi del nord come la Germania far sacrifici per migliorare la situazione di paesi del sud come la Grecia. L’ASEAN, dal canto suo, continuerà a essere diviso tra stati marittimi, più aggressivi nei confronti della Cina, e stati continentali. E benché la regione dei Grandi Laghi sia il centro geografico della Comunità dell’Africa orientale, la Tanzania che ne è più lontana continuerà a mal sopportare la posizione dominante di Kenya e Uganda.
Il NAFTA (che raggruppa gli stati del Nord America) dimostra invece come la geografia possa completare l’integrazione economica: i suoi tre membri occupano un’area grande due volte l’Europa; dal centro del continente si dirama una rete di fiumi che attraversano terre arabili e alimentano le economie della regione. Con due oceani a far da confine, il Nord America ha le frontiere protette ma allo stesso tempo commercia facilmente con i paesi che si affacciano sull’Atlantico e sul Pacifico. Ovviamente anche il NAFTA ha problemi da risolvere, soprattutto per quanto riguarda la regolamentazione dell’immigrazione e l’equa distribuzione delle opportunità e delle risorse nel continente. Ma il NAFTA non vuole strafare.
Anche l’ASEAN mostra scetticismo circa gli effettivi benefici di una maggiore integrazione.
La Comunità dell’Africa orientale invece sta cercando di spingersi oltre e di creare una federazione politica malgrado gli ostacoli. Ci sono molte buone ragioni perché gli stati si uniscano in nome del vantaggio economico, dell’influenza politica e della sicurezza. Ma le ambizioni di queste unioni dovranno inevitabilmente fare i conti con la volontà dei singoli stati di sacrificare la propria sovranità.
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