Se si fa la rivoluzione…
di George Friedman

20/11/2016

(Da “Geopolitical Futures”, 17 novembre 2016, traduzione di Francesca Colla)

 

Quello che Friedman dice a proposito di Trump è vero in qualunque caso di profondo rivolgimento politico in qualunque parte del mondo, inclusa l’Italia. Perciò riteniamo interessante questa analisi.

Vinta la guerra, si deve governare il paese.

Quando i Bolscevichi presero il potere, volevano instaurare la dittatura del proletariato. Occuparono i palazzi del governo a San Pietroburgo, i treni e i telegrafi che tenevano insieme il paese. Combatterono anche una guerra civile per annientare gli insorti monarchici. I Britannici e gli Americani intervennero a fianco dei monarchici. Al rivoluzionario marxista Leon Trotsky fu affidato l’incarico di formare l’Armata Rossa, benché non avesse mai combattuto né condotto un esercito. Vladimir Lenin, che aveva guidato la rivoluzione, nominò Trotsky più che altro perché si fidava di lui, non perché avesse esperienza militare – aveva soltanto letto molto a riguardo. Lenin era convinto che Trotsky non l’avrebbe tradito. In una rivoluzione la cosa più difficile è capire chi ti tradirà e chi no: chiunque potrebbe rivelarsi opportunista, agente del nemico o traditore. Durante una rivoluzione la ricerca della competenza è un lusso. Lenin aveva ben chiaro questo dilemma e istituì subito un corpo di polizia politica – la Ceka – guidata dall’ex aristocratico Felix Dzeržinskij. La Ceka era l’erede dell’Okhrana zarista e il predecessore dell’odierna FSB. Il suo compito era spiare i membri dell’apparato che Lenin stava costruendo ed eliminare coloro che avrebbero potuto tradire la rivoluzione. Lenin voleva liquidare il vecchio regime – in altre parole, uccidere coloro che ne facevano parte. Ma uccidere i vecchi funzionari significava anche non avere più a disposizione gli esperti, le persone in grado di guidare i treni o di comandare l’esercito. La leadership bolscevica era formata da intellettuali che scrivevano libri notevoli e discettavano di che cosa sarebbe successo in caso di rivoluzione, ma che in concreto non sapevano fare nulla. Fatta la rivoluzione, saper tenere discorsi emozionanti davanti a una folla di lavoratori moscoviti divenne meno importante che far funzionare le cose.

Lenin non poté far altro che usare le stesse persone che avevano fatto funzionare il vecchio regime – non tutti, ma abbastanza per avviare la nuova macchina. Pensava di proteggere la rivoluzione tramite la ?eka e di ottenere fedeltà con il terrore. C’erano funzionari zaristi pronti a sostenere la rivoluzione, ma il problema era capire chi era sincero e chi no. Il terrore però serviva fino a un certo punto. Come poteva una persona senza nessuna esperienza nello scavare pozzi di petrolio riconoscere chi era davvero capace di farlo? La rivoluzione era riuscita, ma era molto ostacolata dalla necessità di operare un vortice di scelte tra fedeltà e competenza.

Il presidente americano entrante, Donald Trump, non è Lenin e non deve essergli paragonato. Ma ha davvero avviato una rivoluzione, ha tenuto discorsi infuocati e ha ispirato le masse. Trump ha vinto. Ha promesso bonifiche, il che non è una cattiva idea. Ma per bonificare servono persone che sappiano come funziona la palude. Trump non è Lenin, ma deve affrontare lo stesso problema. Per portare avanti il suo programma, Trump ha bisogno di persone sia fedeli sia esperte in una serie di settori, dai rapporti con la Cina alle assicurazioni mediche. Il governo federale è vasto e inefficiente, non per la qualità delle persone che lo compongono, ma per le sue dimensioni e la sua complessità. È tuttavia indispensabile per la società, che sprofonderebbe nel caos se improvvisamente non funzionasse – ad esempio – l’erogazione dei sussidi statali.

Come Lenin, Trump non può sbarazzarsi delle funzioni del governo federale. Deve risanare il sistema senza demolirlo. Sono davvero poche le persone che sanno come far funzionare un ministero e per lo più sono quelle che già lo stanno facendo. Data l’opposizione di Trump ai programmi federali, probabilmente la maggior parte dei funzionari federali non l’ha votato. Ma benché ci siano migliaia di professori esperti di teoria degli interventi federali nei diversi settori, poche persone sanno come funzionano concretamente i programmi, e quelle poche non sarebbero sufficienti neppure se accettassero tutte l’incarico. Questo è ora il problema di Trump. Non basta nominare il direttore di un’agenzia o il segretario di un dipartimento: i direttori di solito non fanno molto di più che sviluppare politiche che migliaia di altri funzionari sotto di loro applicano. Molti direttori non hanno mai provato a gestire le loro organizzazioni: hanno lasciato che la macchina del governo funzionasse come sempre, accontentandosi del prestigio dell’incarico. Ma Trump non vuole questo. Ha promesso cambiamenti radicali nel funzionamento del governo, quindi ha bisogno di persone in grado di attuare questi cambiamenti. Ha bisogno di esperti. Ha bisogno di riconoscere la differenza tra esperti e impostori e di capire chi è fedele al suo piano e chi lo saboterà (sabotare politiche su cui non si è d’accordo è una specialità dei funzionari di ogni paese).

Non ci si aspetta che Trump faccia tutto da solo; nessun presidente può farlo. Ma deve circondarsi di persone in grado di selezionare dirigenti che gli siano fedeli e che siano anche competenti. I capi del dipartimento della difesa e della CIA dovranno approfondire la visione di Trump, incentrata sul disimpegno, e occuparsi delle questioni che il presidente ritiene importanti.

Le transizioni passate non sono mai state radicali. Le differenze di opinione tra George H.W. Bush e Bill Clinton, tra Clinton e George W. Bush, e tra George W. Bush e Barack Obama non erano così grandi. Non la pensavano allo stesso modo, ma nessuno di loro assunse il potere con la promessa di ridefinire e riorientare radicalmente il governo. Persino Obama, che ha insistito su quanto sarebbe stato diverso come presidente, alla fine non lo è stato molto. O forse gli esperti l’hanno convinto a riaggiustare il tiro. Adesso si vedrà se Trump riuscirà oppure no. I suoi consiglieri devono essere in grado di identificare dirigenti che conoscano i meccanismi del potere e di supervisionare anche la selezione dei funzionari di rango inferiore, per far sì che queste persone – cioè quelle che fanno funzionare l’insieme – siano sia competenti sia fedeli. Il problema, ovviamente, è che questo tipo di persone hanno lavorato nelle maglie del governo per anni e probabilmente considerano Trump un intruso e un folle. Faranno di tutto per sabotarlo occultamente e non sarà difficile farlo, data la vastità della macchina e dei suoi ingranaggi.

Una soluzione sarebbe introdurre una nuova classe di esperti. Ma benché analisti e opinionisti abbondino, è difficile trovare persone che sappiano concretamente fare qualchecosa. Non c’è un governo ombra, né si possono terrorizzare i funzionari già in carica. Conoscono le norme che disciplinano la funzione pubblica e sanno che manterranno il proprio posto durante e dopo Trump.

Non si tratta di un problema solo per Trump: è un problema che chiunque auspichi un cambiamento radicale deve affrontare. Ma non è un problema creato da un qualche complotto, è insito nella complessa natura dell’amministrazione. Governare richiede esperienza e demolire un governo è difficile, a meno di non essere preparati ad affrontare le conseguenze, come fece Lenin. Nell’ottobre 1917 coloro che Lenin scelse per governare determinarono il futuro dell’Unione Sovietica. In questo difficile compito si preferirono fedeltà e terrore invece delle competenze, ma era ciò che Lenin voleva.

Gli Stati Uniti sono nati da una delle rivoluzioni più conservatrici della storia. Il sistema fu programmato per contenere le ambizioni, bloccandole. Trump potrà ottenere soltanto in parte ciò che vuole, e soltanto se i suoi più fedeli collaboratori saranno anche competenti e scafati: in altre parole, se sapranno destreggiarsi tra gli intrighi di potere di Washington. Ma se i suoi consiglieri sono i primi a scontrarsi tra di loro non è un buon inizio.

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