Quindici anni fa, l’11 dicembre del 2001, la Cina veniva accettata a pieno titolo nel WTO, l’organizzazione mondiale del commercio, ed ebbe allora inizio l’evoluzione economica più rapida e più ampia che la storia mondiale abbia mai conosciuto: l’ascesa di circa un miliardo di persone da condizioni di sopravvivenza a un livello di consumi paragonabile a quello dell’Italia degli anni ’60, e il passaggio da un’economia fondamentalmente basata sull’agricoltura alla capacità di usare e sviluppare le tecnologie più avanzate.
La Cina degli anni ’90 era ancora strozzata da una grave carenza di infrastrutture di trasporto e di comunicazione, oggi ha la rete più moderna e forse più capillare del mondo di treni ad alta velocità e di linee aeree interne, e anche nei più remoti villaggi di montagna funzionano computer e cellulari. Questa incredibile evoluzione economica è stata resa possibile dalla piena accettazione della Cina nel sistema economico globale a parità di condizioni con tutte le altre economie di mercato, benché si sapesse che si trattava di un sistema largamente statalizzato, non di mercato. La trasformazione non poteva avvenire che gradualmente, ma avrebbe richiesto molti decenni se non fosse stata accelerata dalla decisione da parte dell’Occidente di aprire subito le porte alle importazioni cinesi, senza limiti. L’abbiamo pagata noi in Occidente, con la perdita di parte della nostra base industriale − ma possiamo dire che ne valeva la pena, dal punto di vista umano.
Il ‘cattivo’ Occidente, accusato di mille nefandezze, in realtà fra il 1992 e il 2001 ha consapevolmente accettato di perdere parte della propria base industriale per integrare prima le economie dell’Europa dell’Est, subito dopo le altre economie comuniste o ex comuniste, fra cui quella cinese. Così metà della popolazione del mondo è emersa dalla povertà e dall’immobilità sociale e ha raggiunto condizioni di relativo benessere e possibilità di avanzamento sociale. Noi siamo entrati in crisi, anche perché abbiamo gestito male la transizione, abbiamo commesso errori grossolani − soprattutto in campo finanziario − e non ci siamo dati la disciplina necessaria per affrontare il periodo di ristagno economico che era ovvio prevedere (non abbiamo controllato efficacemente né la corruzione, né l’utilità effettiva della spesa pubblica, né abbiamo pianificato l’adeguamento del sistema scolastico). Ma i nostri errori li stiamo pagando noi, non li pagano i popoli dell’ex ‘terzo mondo’, né li pagano quelli dei paesi dell’ex blocco comunista, oggi perfettamente integrati nell’economia globale, né li pagano i paesi arabi del bacino del Mediterraneo e del Medio Oriente, che da oltre mezzo secolo beneficiano direttamente degli enormi proventi della risorse energetiche di cui sono ricchi. Dovremmo essere più consapevoli di questi meriti. Volenti o nolenti, noi Occidentali abbiamo sacrificato i nostri interessi per integrare le economie e le culture del globo. Dobbiamo rivendicarne il merito con orgoglio e rigettare le accuse di ‘sfruttamento’ e di ‘colonizzazione’ sulle spalle di chi strumentalizza gli avvenimenti storici di cent’anni fa per attaccarci oggi.
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