Su Asia Times del 15 gennaio 2017 Francesco Sisci, sinologo ed editorialista internazionale, pubblica ‘Note to Abbas: Wake up, China is reshaping the Middle East’, che traduciamo volentieri, perché concordiamo largamente con la sua opinione.
Il presidente dell’Autorità Palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen) è stato a Roma questo fine settimana per convincere il Papa, incarnazione del massimo soft power, a sostenere la sua causa. Questa iniziativa diplomatica avviene subito dopo un nuovo attacco terroristico a Israele in cui un autocarro ha falciato in strada degli innocenti, cui ha fatto seguito una manifestazione di sostegno al terrorismo a Gaza. Tutti segni di estrema debolezza da parte dei Palestinesi e di follia nel loro sostenere il terrorismo.
È follia in senso tecnico, in quanto perdita del senso della realtà, perché la situazione dell’intera regione è cambiata, non soltanto per via delle guerre in Siria e Iraq. Il progetto cinese di una nuova Via della Seta sta creando una nuova dinamica in Medio Oriente, che cambia l’equilibrio di potere della regione. L’attuale equilibrio di potere è ancora il frutto storico della conquista turca di Costantinopoli nel 1453 e della caduta dell’Impero Romano d’Oriente. I Turchi imposero, alla caduta dell’Impero Romano, il loro monopolio sul lucroso commercio con le Indie e l’Estremo Oriente. L’obiettivo era tanto esplicito che il Sultano assunse il titolo di Imperatore Romano e avanzò verso occidente e alla conquista del Mediterraneo. Il tentativo abortì definitivamente nel 1683, quando le forze turche furono sconfitte vicino a Vienna. Ma nei 230 anni fra la conquista di Costantinopoli e la sconfitta di Vienna il mondo cambiò, senza che gli attori politici del Mediterraneo ne tenessero conto.
Viste bloccate le tradizionali rotte commerciali del Mediterraneo orientale, Spagna e Portogallo cercarono di aggirare il blocco imposto dai Turchi. Scoprirono l’America e aprirono le prima rotte dirette fra l’Europa e le Indie, che evitavano gli intermediari in Medio Oriente e nell’Asia Centrale. Le rotte toccavano il sud dell’India, le Filippine, il Messico e la Spagna. Erano molto più lunghe di quelle che attraversavano l’Asia, ma per la prima volta erano esenti da intermediari. Questo portò immensa ricchezza, cambiò la politica e l’economia del globo. Alla lunga portò anche alla caduta dei possenti imperi persiano e turco: aggirate dalle rotte americane, le loro economie divennero marginali rispetto alle dinamiche centrali euro-atlantiche.
Il crollo dell’Impero Ottomano alla fine della Prima Guerra Mondiale fu il prezzo finale pagato dai Sultani. Da allora le frontiere del Medio Oriente furono variamente ridisegnate. La Turchia provò a darsi una nuova identità abbandonando la veste multietnica e indossando una veste nazionalista che escludeva Armeni, Greci, Curdi e altre minoranze. La Turchia cambiò natura, l’intera regione cambiò aspetto con la nascita di stati ‘nazionali’ governati da Arabi che prima era sudditi del Sultano.
La regione ha catturato a lungo l’attenzione delle grandi potenze mondiali, primo perché controlla prezzi e produzione del petrolio, materia prima essenziale, poi perché è diventata il cuore del terrorismo islamico. È però rimasta marginale rispetto alle dinamiche economiche e industriali che continuano ad avere come centri America ed Europa, ma negli ultimi trent’anni stanno spostandosi in Asia. Ora lo sviluppo globale di nuove fonti di gas e lo sviluppo di tecnologie che risparmiano energia ha portato al rapido declino dell’importanza del Medio Oriente sia nella produzione di petrolio sia nella politica globale.
Oggi la fine dell’antico monopolio turco sulla regione, l’emergere delle economie asiatiche (fra cui quella cinese) e lo sviluppo di nuove tecnologie di trasporto su rotaia hanno creato l’opportunità di un nuovo sviluppo dell’antica Via della Seta. La Cina è stata la prima a capirlo, ma non sarà l’ultima. Spedire le merci in Europa su rotaia dalla Cina, dall’India, dalla Tailandia attraversando il Medio Oriente è più veloce, più economico e più efficiente che spedirle via mare e attraversare l’Africa (o il Canale di Suez) per arrivare a Rotterdam.
Questo offre una grande possibilità di sviluppo a tutta la regione, che potrà riscoprire l’antica propensione al ruolo di centro mercantile del mondo, ben più importante e più remunerativo che l’estrarre semplicemente materie prime dal sottosuolo. Col commercio si sviluppa l’industria, si cresce e si ridisegnano le economie locali. Ma occorre stabilità politica. La guerra, anche le acrimonie covate sotto le ceneri, rendono tutto difficile. Il nodo focale qui è Israele, cuore tecnologico e industriale e unica democrazia della regione.
In quanto entità politica stabile, Israele deve essere integrata nella regione, nell’interesse di tutti. Il maggior ostacolo alla sua integrazione è il rifiuto palestinese di riconoscerne l’esistenza. È una finzione politica: i Palestinesi sanno che Israele esiste, ma non vogliono ammetterlo per non rinunciare a un vantaggio nel negoziare. Il rifiuto del riconoscimento politico mantiene la speranza che Israele sarà sconfitta e cancellata dalle carte geografiche. Forse questo sarebbe stato possibile qualche decennio fa, ma la concreta pressione della Cina e dell’Asia sulla nuova Via della Seta, lo scemare del peso politico derivante dal petrolio, nonché la crescente capacità politica e industriale di Israele, rendono insignificante la posizione palestinese. Il riconoscimento politico di Israele da parte palestinese non è più una carta che abbia valore nei negoziati.
Tutti, inclusi i Palestinesi, sono disposti a trattare con Israele perché nessuno vuole che altre frontiere politiche cambino nella regione. C’è già troppo caos e ci sono troppi interessi in gioco, anche al di fuori della regione, per immaginare che Israele possa scomparire. Quella che cinquant’anni fa era una carta negoziale importante nelle mani dei Palestinesi oggi è diventata la loro palla al piede e la benda che acceca la loro visione politica. La loro miglior carta negoziale oggi sarebbe non l’illusione che Israele sparisca, ma il loro saper lavorare con gli Israeliani per aiutare l’integrazione di Israele nella regione. Perché l’integrazione ci sarà, con o senza i Palestinesi. Il pericolo dell’islamismo estremista spingerà i popoli della regione, Arabi o non Arabi, a collaborare con Israele, che ha la maggiore esperienza nell’affrontare l’estremismo. I Palestinesi possono scegliere se partecipare all’impresa o rimanerne tagliati fuori. Hanno perso da tempo la loro carta più importante, la possibilità di unire e galvanizzare le masse arabe contro Israele. La recente collaborazione fra Turchia, Russia, Iran e Siria fa presagire che prima o poi persino gli Iraniani abbandoneranno il sostegno politico dei Palestinesi. Nell’interesse della loro stessa sopravvivenza politica i Palestinesi dovrebbero riconoscere Israele. Prima lo faranno, maggiore sarà il loro potere di negoziazione. Può essere spiacevole e infrangere tante illusioni, ma è la dura realtà.
Riconoscere Israele non significa che i Palestinesi debbano accettare le politiche e le decisioni dell’uno o dell’altro governo israeliano. Ma se i Palestinesi temono la crescita del peso politico degli estremisti religiosi in Israele o non vogliono l’ulteriore espansione delle colonie israeliane nel West Bank, avranno più possibilità di opporsi se riconosceranno Israele e abbandoneranno gli assurdi programmi educativi che insegnano ai loro giovani l’odio per Israele. Ora e nella prossima decade il futuro dei Palestinesi è proprio in un ruolo di protezione di Israele. Giusto o ingiusto che sia, è un dato di fatto.
Nel 1453 il sultano turco avrebbe potuto raggiungere un accordo generoso con i mercanti genovesi e veneziani sui commerci con le Indie. Se l’avesse fatto, forse la stagione della navigazione oceanica e della scoperta dell’America sarebbe stata ritardata, o almeno non avrebbe avuto l’enorme impatto politico che ebbe. Ora i tempi sono accelerati e non dobbiamo aspettare duecento anni per vedere i frutti degli errori di calcolo. La finestra di opportunità dei Palestinesi sta inevitabilmente restringendosi giorno per giorno, per quanto possa dispiacere.
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