Alla base dell’attuale disunione europea c’è la prova di inefficienza data dalle istituzioni europee di fronte alla crisi finanziaria ed economica dal 2008 in poi. La risposta data dalle istituzioni europee ai paesi in maggiore difficoltà perché gravati dal peso di un enorme debito pubblico, è stata ‘Chi è causa del suo mal pianga se stesso’. Risposta doverosa. Poi però la politica deve cercare una via di uscita da situazioni difficili – questo è il suo compito. Quel è stata la via di uscita proposta dai partner dell’Eurozona? L’imposizione del fiscal compact ai paesi a rischio di default, per avere gli indispensabili aiuti di emergenza. Come condizione per affrontare l’emergenza ha una sua logica: ‘Hai sbagliato, la stai pagando, ora ti aiutiamo, ma a patto che tu cambi modo di agire’. Poi però la vita continua e occorre disegnare un nuovo modello di sviluppo per il futuro delle economie in difficoltà, ma qui le istituzioni europee e i partner europei si sono impuntati, non hanno né avanzato né accettato proposte. Con il fiscal compact i paesi molto indebitati hanno perso la possibilità di investire per riavviare l’economia e la speranza nel futuro: non potendo aumentare la percentuale di debito, gli stati sono costretti a scegliere tra pagare stipendi e pensioni, oppure fare investimenti in infrastrutture per il futuro. Inoltre debbono gravare il loro sistema produttivo di tasse così alte che lo tramortiscono. Così i tagli e i risparmi di spesa pubblica non diminuiscono la percentuale di debito pubblico rispetto al PIL, perché il PIL in termini reali non cresce, tende anzi a diminuire. Siamo così entrati in un circolo vizioso da cui non possiamo uscire.
Occorre che i paesi dell’Eurozona modifichino il fiscal compact: gli stati con debito superiore al 90% del PIL debbono ridurlo progressivamente spendendo ogni anno meno di quanto incassano, ma debbono potersi indebitare ulteriormente per investimenti in ricerca di base e applicata, in costruzione di infrastrutture per mettere in sicurezza il territorio, per migliorare la qualità dell’ambiente, per migliorare e ammodernare trasporti e comunicazioni. Così gli stati possono avviare una nuova fase di sviluppo mirato alla qualità dell’ambiente, alle comunicazioni e alla ricerca scientifica, che avrà ricadute positive sull’economia del paese, sull’ottimismo dei cittadini e sulla loro qualità di vita.
Chi ci rimetterebbe da una tale revisione del fiscal compact? Nessuno stato europeo. La Germania vedrebbe scemare la sua possibilità di condizionare le decisioni europee grazie al suo predominio economico, ma sarebbe in ottima posizione per partecipare alla corsa al nuovo sviluppo insieme agli altri paesi europei, non contro gli altri Europei, né sola fra tutti gli Europei. Negli ultimi 180 anni la Germania dovrebbe aver imparato quali sono i rischi di voler correre da sola contro tutti….
A rimetterci sarebbe il potere della burocrazia europea, che gestisce i fondi comuni europei destinati a progetti per investimenti strutturali, versati dai singoli stati membri. Se a finanziare e gestire le infrastrutture per lo sviluppo fossero direttamente gli stati, la Commissione europea perderebbe l’unico strumento di potere reale di cui è dotata per contrastare le spinte alla frammentazione dell’Unione. Si potrebbe però pensare che sia la Commissione a indebitarsi per investimenti strutturali e che il debito della Commissione sia garantito da tutti gli stati dell’Eurozona congiuntamente. Le infrastrutture per lo sviluppo potrebbero essere proposte dagli stati (ora i progetti europei sono proposti da enti locali e da privati, non dagli stati), approvate dai governi dell’Eurozona, finanziate con titoli di debito emessi dalla Commissione europea e l’attuazione dei progetti potrebbe essere controllata dalla Commissione stessa, oltre che dai singoli governi.
Chissà se il prossimo governo francese e il prossimo governo italiano si faranno carico di modificare il fiscal compact per l’Eurozona, insieme al prossimo governo tedesco? È l’ultima possibilità di salvare l’Europa dalla disgregazione e dall’insignificanza a livello globale.
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