Ripercorrendo la storia della globalizzazione Rodrik propone una chiave di lettura interessante alle cause dell’“enorme disparità” di livello di vita tra zone periferiche e zone centrali del mondo. All’alba della Rivoluzione Industriale il divario tra le regioni più ricche e più povere del mondo era della proporzione di 2 a 1. Oggi è mediamente di 20 a 1, con punte di 80 a 1. Perché?
L’Europa Occidentale, l’America e successivamente l’Asia orientale decollarono durante le precedenti fasi di globalizzazione, mentre il resto del mondo registrava una crescita assai lenta e spesso arretrava dopo aver evidenziato brevi fiammate d’espansione. A metà del XIX secolo il mondo era diviso in due categorie: della prima faceva parte un piccolo gruppo di paesi ricchi, nell’altra figurava una gran quantità di paesi caratterizzati da alti livelli di povertà. Nel corso dei sei decenni successivi (cioè fino alla Prima guerra mondiale, durante la prima fase di globalizzazione) si verificò una crescita straordinaria dei commerci e delle produzioni, che però toccò soltanto una manciata di paesi nel continente asiatico, quasi nessuno in Africa. L’abisso che separava le nazioni ricche da quelle povere raggiunse livelli mai conosciuti prima. L’economia mondiale si divise sempre più in due zone: paesi centrali sempre più industrializzati e paesi periferici che producevano essenzialmente materie prime.
La globalizzazione portò e diffuse moderne tecnologie di produzione nelle aree del mondo che disponevano dei necessari presupposti fondamentali, consolidando e accentuando una divisione a lungo termine tra diversi sistemi produttivi. Le “propaggini dell’Occidente” − Stati Uniti, Canada, Australia e Nuova Zelanda − raggiunsero i presupposti fondamentali necessari allo sviluppo industriale grazie alle vaste ondate d’immigrazione e ai grandi capitali che affluivano dall’Europa, entrando a far parte della “zona centrale” industriale. Gli effetti della globalizzazione sulle altre aree mondiali furono invece ben differenti. In queste regioni gli Europei decisero di procedere allo sfruttamento delle risorse naturali e di creare istituzioni e sistemi di pura estrazione, ben differenti rispetto a quelli introdotti nelle “propaggini” dell’Occidente. L’obiettivo era produrre e trasferire le materie prime nella zona centrale del mondo al minor costo possibile.
Le colonie edificate in base al modello di ‘estrazione di risorse’ facevano ben poco per proteggere i diritti di proprietà, favorire lo sviluppo del mercato o incoraggiare altri tipi di attività economica locale. Le economie nella zona dei Caraibi e quelle basate sull’industria mineraria in Africa ne furono esempi tipici. Questa prima esperienza di sviluppo − o mancanza di sviluppo – ebbe come conseguenza l’indebolimento delle economie dei paesi dell’Africa e dell’America Latina che è ancora avvertito ai nostri giorni.
La globalizzazione ha dunque reso più profonda la divisione della manodopera a livello internazionale. Le economie basate sulla produzione di materie prime e prodotti agricoli di base avevano scarse opportunità di diversificare. Non solo non riuscivano a industrializzarsi, ma perdevano anche le industrie che possedevano, perché i prodotti importati dai paesi già specializzati in produzioni industriali erano molto più competitivi. Nel loro caso si può parlare di deindustrializzazione causata dall’afflusso massiccio sui loro mercati di beni manufatti dall’Europa. Continua a succedere anche oggi in Africa, persino con i prodotti agricoli.
Molti economisti africani sostengono che gli aiuti allo sviluppo che l’Occidente elargisce all’Africa corrompono le élite e promuovono le importazioni dai paesi donatori. Le importazioni dai paesi donatori, anche e soprattutto di prodotti donati o sussidiati, fanno chiudere le attività dei produttori locali, che non possono competere con la qualità dei prodotti dati come ‘aiuti’ dai paesi industrializzati; si legga il libro di Dambisa Moyo (foto a lato), “La carità che uccide”.
È vero che la divisione della manodopera a livello internazionale nel periodo precedente al 1914 produsse ricchezza reale anche nei paesi esportatori di materie prime, ma la ricchezza venne concentrata nelle mani di una piccola élite, come avviene oggi nelle economie basate sul petrolio, anziché alimentare piccole e medie imprese diverse e creare una classe imprenditoriale media. L’effetto finale fu soffocare lo sviluppo e la diversificazione economica a livello produttivo e istituzionale.
A sostegno della sua tesi Dani Rodrik presenta il caso dell’Argentina. L’Argentina nel primo ’900 era una delle economie più ricche al mondo grazie alle sue fertili pampas. Buenos Aires con i suoi eleganti boulevard, i club del polo, il fastoso teatro dell’Opera, i giovani che andavano a studiare a Eton e un’aristocrazia raffinata era in grado di brillare come le più importanti capitali europee. Tale ricchezza era ottenuta a discapito dello sviluppo economico futuro. Le esportazioni di cereali e bestiame, unitamente a rilevanti apporti di capitali dall’Inghilterra, avvantaggiavano quasi soltanto i proprietari terrieri, che nutrivano ben scarso interesse a diversificare l’economia o fondare istituzioni in grado di sostenere e sviluppare il mercato interno creando una larga classe operaia e media.
Negli Stati Uniti invece gli industriali nordisti e gli agricoltori occidentali ebbero la meglio sui proprietari di piantagioni sudisti, anche attraverso l’aumento delle tasse sulle importazioni, e promossero la nascita di istituzioni di più ampia portata sociale ed economica.
Un paese diventa quello che produce, questo è l’ineluttabile destino delle nazioni. Un paese che si specializza nella produzione di commodities (prodotti agricoli di base e materie prime) sarà relegato nella periferia dell’economia mondiale, rimanendo ostaggio delle variazioni globali dei prezzi, sottomesso al potere di una élite. Soltanto lo sviluppo di un forte mercato domestico di produzione e di consumo di manufatti può rendere competitiva un’economia anche in altri settori e metterla al riparo dalle oscillazioni di prezzo delle commodities. Ma per riuscirci occorre dotarsi di quelle istituzioni rappresentative e di ampia portata che un ceto medio in continuo sviluppo richiede.
La globalizzazione rende più probabile che i paesi cadano nella trappola delle commodities. La divisione della manodopera a livello internazionale è conseguenza della specializzazione produttiva dei vari paesi. Se i paesi non producono ciò che è necessario alla loro popolazione, ma soltanto ciò che possono e sanno produrre al miglior prezzo per il mercato esterno, importando tutti gli altri beni e servizi, si produce un dumping sociale a livello planetario in cui alcuni paesi eseguono soltanto lavori semplici e poco remunerati e rimangono alla mercé delle variazioni dei prezzi globali.
La globalizzazione può invece contribuire ad accelerare lo sviluppo se i governi attuano una strategia alternativa, come dimostrano ampiamente le esperienze del Giappone, della Corea del Sud, di Taiwan e della Cina, dove la crescita è stata eccezionalmente veloce nel corso degli ultimi tre decenni. Tali paesi hanno mantenuto i controlli sui capitali e hanno tenuto a bada la finanza internazionale utilizzando lo spazio della politica per la gestione dell’economia interna. Un governo impegnato ad avviare la diversificazione economica e capace di infondere energia alle attività private del paese stimola anche l’afflusso di capitali esteri. Ma i mercati abbandonati ai loro meccanismi riescono raramente a fornire gli incentivi necessari al miglioramento del sistema produttivo locale − è necessario l’intervento fattivo dei governi per dar vita a un fulcro di attività imprenditoriale dinamica.
A cura di Ilaria Canzani
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