L’autore del libro Why Africa is poor? nel fornire un ritratto e una spiegazione della situazione economica pone l’accento sulla cultura: “un fatto scomodo”, dice Greg Mills, “che molti accademici e professionisti non hanno sottoposto a sufficiente analisi”. Nell’argomentare la sua posizione, l’autore (che è sudafricano) porta ad esempio Singapore: la transizione dell’isola da palude malarica a leader in innovazione e tecnologia è un esempio di successo economico e di buone pratiche.
Nel 1960 la popolazione di Singapore non aveva accesso a elettricità, acqua corrente o altri servizi di base. Non c’erano risorse naturali sul territorio. La chiusura delle basi inglesi nei primi anni ’70 significò la perdita di un quinto dell’economia. A questi problemi si univano tensioni etniche, scioperi, rivendicazioni comuniste e più del 10% di disoccupazione. Tuttavia negli anni ’60 l’isola ha iniziato una crescita esponenziale, in gran parte determinata dall’importazione di talenti: nel 2008 su una popolazione di 4.6 milioni di persone un milione erano stranieri. Le competenze, insieme allo sfruttamento della posizione geografica e all’acquisizione di tecnologia di avanguardia, hanno portato Singapore alla ribalta nell’economia dei servizi globali.
Le politiche di Singapore hanno rispettato le tradizioni di porto libero e franco: non ci sono tariffe sui beni importati e i numerosi accordi di libero scambio, non soltanto con i paesi dell’ASEAN (organizzazione politica, economica e culturale di nazioni del Sud-Est asiatico), fanno di Singapore la porta di accesso agli scambi globali.
Singapore non può sopravvivere senza globalizzare, ma lo scambio non è il solo aspetto della globalizzazione che è stato abbracciato. Un mercato del lavoro molto flessibile ha aiutato le aziende a resistere agli shock esterni, ai cambiamenti e alle sfide. Tra governo, sindacati e mondo degli affari si è sviluppata una robusta simbiosi.
Tutto ciò è stato permesso e accompagnato da un governo dedicato ed efficiente, che ha istituzionalizzato i principi di crescita. A Singapore questo si traduce in prudenza fiscale, tasso di cambio stabile e competitivo, bassi tassi d’interesse, stabilità dei prezzi, orientamento verso l’esterno, focus sui motori di crescita e implementazione di fattori di competitività. Questo ha richiesto disciplina da parte del governo fin dall’inizio, attenzione ai dettagli e una leadership lungimirante.
Il confucianesimo è ritenuto la guida delle politiche sociali ed economiche di Singapore. Gli insegnamenti del filosofo cinese Confucio sono solitamente presentati come una filosofia che esalta l’armonia sociale, vuole società e istituzioni statali in equilibrio e un’interazione ying yang di flussi, compiti e responsabilità. Il compito della popolazione di lavorare per lo sviluppo è bilanciato dalla responsabilità del governo di prendersi cura delle persone e di provvedere al loro welfare. Per il confucianesimo l’individuo nasce con dei doveri, in contrasto con il concetto occidentale per cui l’individuo nasce con dei diritti.
Il confucianesimo è stato il meccanismo culturale e ideologico di crescita dietro lo spettacolare successo economico delle Tigri Asiatiche, così come l’etica del lavoro protestante ha funzionato un tempo in nord Europa e in nord America. Questo aiuta a spiegare l’impegno dei regimi asiatici per il benessere della popolazione. Il ruolo che rivestono lo stato, la famiglia e la comunità all’interno della cultura è centrale per comprendere il contesto di sviluppo asiatico e l’impegno dei leader per il benessere della popolazione. La cultura confuciana trasferisce maggiori responsabilità agli individui e alla società, mobilitando la popolazione in un maggiore sforzo di sviluppo.
L’aspetto più importante della crescita di Singapore non è l’aspetto fisico o materiale della transizione, ma piuttosto il rifiuto di guardare indietro e rimuginare sul passato – cosa che Singapore condivide con gli altri paesi nella regione. Mentre i paesi africani rimproverano continuamente il colonialismo (anche per argomentare le richieste di aiuto), i Singaporiani e i Vietnamiti non menzionano questa parte della loro storia. Non che non abbiano motivo di lamentarsene, ma raramente si sente un vietnamita parlare del terribile passato coloniale che caratterizza la storia del paese. La retorica di questi paesi si focalizza sulla competitività, non sul colonialismo, e considera l’aumento della produttività, non lo stato, come chiave della creazione di posti di lavoro.
I leader africani, con l’aiuto dei donatori di aiuti allo sviluppo, sono invece riusciti a esternalizzare i loro problemi facendoli sembrare responsabilità (e apparentemente anche colpa) di altri. Questo non fa che indebolire il già inconsistente legame di credibilità tra il governo e la sua popolazione.
Che ai leader africani sia stato permesso di farla franca con decisioni rovinose e egoistiche può essere attribuito in gran parte alla mancanza di democrazia (o alla prevalenza di monopartitismo). C’è stata poca pressione dal basso sulla leadership per compiere scelte migliori, malgrado la crescita incoraggiante della società civile in alcune parti del continente negli ultimi due decenni.
Questa apparente passività di fronte alla cattiva leadership può essere attribuita, almeno in parte, all’aspetto culturale. Lo stile di governo è quello del capotribù neo patrimoniale, il patrono dispensante favori che utilizza risorse statali per garantire la fedeltà dei clienti e usa tutti i mezzi per rafforzare il proprio potere: strutture di governo tradizionali, legami di parentela e aspetti meno palpabili quali la stregoneria e la religione. Il sistema che molti leader africani hanno preferito favorisce il prosperare di corruzione e nepotismo.
La cultura non è la sola causa di successo o insuccesso: in un processo complesso sono inevitabilmente intrecciate cause multiple. L’aspetto culturale funziona in entrambe le direzioni – è un fatto scomodo che molti accademici e professionisti troppo spesso sottostimano.
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