“La ragione principale per cui gli Africani sono poveri è la scelta dei loro leader”, afferma coraggiosamente Greg Mills. Fra gli esempi cita lo Zambia, che mostra in modo lampante che i grandi problemi delle economie africane sono essenzialmente politici.
Per molti Africani Kaunda, primo presidente dello Zambia indipendente dal 1964 al 1991, è uno degli statisti africani più anziani e più amati: si è dedicato altruisticamente alla liberazione della Rhodesia governata dai bianchi e del Sudafrica dell’apartheid, fornendo rifugio a tutti i movimenti di liberazione, anche a scapito dell’economia e delle infrastrutture del suo paese. Come lo stesso Kaunda si premurò di sottolineare nell’aprile del 2009, all’età di 85 anni, egli fu, insieme al presidente della Tanzania Julius Nyerere, il presidente meno pagato in Africa e, diversamente da molti altri nella sua posizione, non accumulò denaro personale durante i suoi ventisette anni di mandato.
Nel 1968 lo Zambia di Kaunda bandì l’opposizione politica, e questo fu uno dei maggiori problemi del suo governo: ventisette anni di dittatura benigna in cui le politiche economiche stagnarono, stagnò la creatività in un’atmosfera di stagnazione politica. Nel 1983 lo Zambia si trovava in una situazione deprimente. Dall’elettricità alle strade e binari, le infrastrutture del paese erano traballanti o in rapida decomposizione. Invece dell’attitudine del “si può fare” onnipresente nelle popolazioni asiatiche che ottennero l’indipendenza intorno allo stesso periodo, in Zambia l’attenzione era fissa sul ruolo degli stranieri, visti sia come causa della miseria che come fonte di ricchezza. In tale situazione le scelte politiche di sviluppo economico importavano poco al governo; quando venivano fatte, erano quasi sempre grossolane e a breve termine.
Nel 1968 con la Dichiarazione Mulungushi Kaunda annunciò l’intenzione di acquistare il controllo (almeno il 51%) di un numero di aziende di proprietà estera e farle gestire dello Zambia Industrial and Mining Corporation (ZIMCO), di cui era presidente Kaunda stesso. Così il governo prese il controllo delle compagnie assicurative, minerarie e delle costruzioni. A suo credito, il governo di Kaunda fu molto diligente nel fornire istruzione e assistenza sanitaria gratuita e sussidiò il prezzo di molti alimenti di base. Aveva il desiderio genuino di dare servizi essenziali a chi non poteva permetterseli.
Il collasso dell’economia zambiana può essere attribuito prima di tutto alla caduta del prezzo globale del rame, che costituiva il 90% delle esportazioni del paese. Il prezzo passò da 3 dollari per libbra nel 1973 a meno di 1 dollari per libbra nel 1980. Il governo continuò a fornire istruzione e sanità gratuite ad una popolazione crescente, credendo che la caduta dei prezzi fosse temporanea. Come risultato, il debito estero dello Zambia crebbe fino a diventare fra i più alti al mondo. Il prezzo delle materie prime non tornò sui 3 dollari fino agli anni 2000, e il mantenimento di questo sistema di elargizioni sociali divenne sempre più difficile.
Il governo di Kaunda era interventista in economia, usurpando il mercato a ogni occasione, nazionalizzando ogni tipo di affare. Il commercio al dettaglio era in mano alla popolazione di etnia asiatica, i prezzi riflettevano la mancanza di competizione. L’agricoltura era un settore chiuso che sopravviveva soltanto grazie ai sussidi e al protezionismo. Le terre coltivate erano appannaggio del governo e delle autorità statali, difficili da ottenere e impossibili da affittare o comprare. In assenza di un mercato dei terreni agricoli, mancavano gli incentivi agli investimenti in agricoltura. C’era più interesse all’utilizzo e al consumo di foreste, pesci e altri animali selvatici. Kaunda diceva che l’agricoltura era la priorità “per produrre tutto il cibo di cui abbiamo bisogno, e per fondare le relative industrie”. Ma il risultato della nazionalizzazione dei terreni fu che un paese come lo Zambia, che ha tre volte il territorio dell’Uttar Pradesh, regione che alimenta tutta l’India e produce surplus, non raggiunse mai l’autosufficienza alimentare per una popolazione che è un quinto di quella indiana. Il pane era spesso fatto di un mix di mais invece che di grano. Le miniere perdevano 1 milione di dollari al giorno. La politica di Kaunda rese lo Zambia uno dei paesi più pesantemente indebitati al mondo.
Oggi molto è cambiato in meglio, ma ancora di più deve essere fatto. La mentalità burocratica è ancora presente e largamente distruttiva, intenzionata più a impedire che promuovere. Si dice che in Zambia ci siano tre divisioni di governo: i politici, la burocrazia e le autorità tradizionali, ciascuna delle quali con le proprie motivazioni e i propri interessi. Sono rimaste le cattive scelte politiche. Sono rimasti alti costi logistici e problemi nel settore agricolo, area di maggior potenziale sul lungo periodo.
Con onestà disarmante, nei tardi anni 2000 Kaunda ammise di aver fatto scelte sbagliate, ma almeno, disse, “non c’era discriminazione”. Questo è vero solo fino a un certo punto. Il paese è rimasto xenofobo, nonostante sia stato rifugio dei movimenti di liberazione.
A oltre cinquant’anni anni dall’indipendenza, la versione zambiana dei programmi di Economic Empowerment, ovvero le politiche economiche che hanno lo scopo di favorire parti della popolazione ritenute precedentemente svantaggiate, è prova che l’economia non è ancora riuscita a diffondere benessere e, peggio ancora, è basata sulla credenza che gli Zambiani starebbero meglio se gli stranieri non fossero presenti. Le difficoltà dello Zambia continuano a essere attribuite a colpe esterne: come molti altri Africani, molti Zambiani credono che maggiore apertura e più scambi favoriscano gli interessi esterni e portino danno all’interno.
In sintesi, il mondo non ha negato all’Africa il mercato e i mezzi finanziari per competere. L’Africa non è povera perché gli abitanti non lavorano abbastanza: la loro produttività è bassa a causa di diversi fattori, inclusa la scarsità di competenze, l’uso inefficiente della terra, lo sciovinismo. Non è colpa dell’aiuto di per sé, non è conseguenza inevitabile della scarsità di infrastrutture o di impossibilità di accedere agli scambi.
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