Ripensare lo stato-nazione

30/09/2017

Referendum in Kurdistan, referendum in Catalogna, disintegrazione della Siria, secessione ucraina...le radici e l’evoluzione degli eventi che portano a scissioni e secessioni sono diverse, ma tendiamo ad attribuire questi fenomeni a un ‘nuovo nazionalismo’. Non si tratta di fenomeni nuovi né rari: già negli anni ’90 la Cecoslovacchia si è divisa in due stati (Cechia e Slovacchia), la Jugoslavia si è frammentata in 7 stati diversi con terribili guerre civili. E ancora: dopo il Brexit la Scozia potrebbe lasciare il Regno Unito, in Italia da anni si parla di secessione della Padania...

Ma parlare di nazionalismo è fuorviante, perché la frammentazione odierna ha motivazioni opposte a quelle che alimentarono la creazione degli stati nazionali a partire dal tardo 1700 fino alla Seconda Guerra Mondiale. Allora il nazionalismo tendeva a creare culture omogenee di massa e strutture fisiche e burocratiche di massa che permettessero alle persone di inserirsi in modo flessibile sia come produttori, sia come consumatori, sia come burocrati nell’economia dell’industria di massa che si andava velocemente sviluppando e nei complessi servizi pubblici necessari per lo sviluppo: trasporti di massa, alloggiamenti di massa, poste per recapitare masse di documenti, scuole per masse di persone accomunate dall’uso di una stessa lingua.

La competizione fra gruppi diversi all’interno dei confini degli stati nazionali mirava a squalificare ed eliminare i concorrenti per gli impieghi pubblici e privati, l’esaltazione della nazione mirava a creare il senso di solidarietà fra gruppi che per secoli avevano parlato dialetti diversi, avevano fatto parte di gruppi sociali diversi. Nella tensione fra processi di esclusione e di inclusione prevalse l’inclusione: gruppi che avevano sempre parlato soltanto dialetti locali presero a usare una lingua nazionale, andarono a vivere e lavorare nelle città insieme a centinaia di migliaia di sconosciuti arrivati da migliaia di paesi e villaggi che precedentemente avevano ben pochi rapporti fra loro. Il sistema produttivo industriale di massa e gli stati che reggevano le società industrializzate avevano bisogno di grandi nazioni pervase da una stessa cultura e dal sentimento di appartenenza ad uno stesso gruppo, sia per conquistare e dominare mercati esteri, sia per sviluppare e organizzare le strutture del mercato interno.

Oggi assistiamo a fenomeni opposti a quelli che portarono alla creazione degli stati nazionali, sia sul piano socio-economico che sul piano politico.

Sul piano economico la globalizzazione tende a creare gruppi culturali, economici e sociali che competono sul mercato globale utilizzando conoscenze e capacità molto specifiche e di nicchia, non di massa. Possono essere specificità locali, legate ad un angolo di territorio (prodotti alimentari DOC, musei e altre attrazioni culturali e storiche, tradizioni artigiane particolarissime), oppure legate a eccellenze tecniche, matematiche, scientifiche non accessibili a tutti. Le masse di operai o impiegati generici, fino agli anni ’70 insufficienti rispetto alle necessità, oggi sono in larga parte in pensione anticipata, sotto occupati o disoccupati e alla politica chiedono protezione dalla concorrenza internazionale, votando per chi si presenta come difensore degli interessi nazionali o locali. Ma i giovani non si rivolgono più a impieghi nell’industria di massa: molti trovano inserimento all’estero, o in attività globalizzate, o in attività locali specifiche.

Sul piano politico negli ultimi 60 anni abbiamo sviluppato un gran numero di istituzioni sovranazionali necessarie per gestire in modo coordinato gli scambi multilaterali, che dopo la caduta dell’URSS e la fine della Guerra Fredda sono cresciuti in modo esponenziale, anche grazie alle nuove tecnologie digitali per la comunicazione. Nessuno stato e nessun gruppo oggi può vivere in isolamento: perfino il regime del Nord Corea dipende dagli scambi con Cina e Russia per la sopravvivenza, nonostante affami e schiavizzi la propria popolazione.

Le strutture sovranazionali e le nuove tecnologie permettono a molte regioni di rendersi economicamente autonome. La Catalogna o la Scozia potranno commerciare e dialogare con il mondo intero anche se lasceranno gli stati di attuale appartenenza, tanto più se continueranno ad avere accesso alle sovvenzioni europee per progetti strutturali infra-regionali, a cavallo delle frontiere statali. Hanno accesso alla cultura globale e ai mercati globali via internet e via mare, ma non si aspettano che il loro territorio venga invaso e conquistato da eserciti ostili provenienti da paesi limitrofi, perché sono in posizioni protette. La Catalogna può persino contare su di una propria milizia armata, i Mossos d'Esquadra, che dal 2005 sostituiscono totalmente sia la Guardia Civil che la Policia Nacional. La Catalogna è inoltre la regione più ricca della Spagna, paga molte più tasse allo stato centrale di quante ne vengano restituite al territorio sotto forma di servizi statali. È difficile dimostrare ai Catalani che esser parte dello stato nazionale spagnolo ha qualche utilità per loro. E la percezione dell’inutilità di una istituzione porta alla sua dissoluzione, se l’istituzione ha un costo percepibile. Così al crollo del sistema economico pubblico costruito in epoca sovietica seguì la dissoluzione quasi immediata dell’Unione delle Repubbliche Sovietiche. Al crollo del sistema produttivo comunista nella Repubblica federale di Jugoslavia fece seguito la frammentazione dello stato e la guerra civile fra etnie diverse. 

Ma che istituzione sostituirà lo stato nazionale? In Europa tentiamo di costruire l’Unione Europea da decenni, ma siamo sempre a metà del guado, intrappolati da pericoli e paure e contrastanti esigenze.

La paura maggiore è che in qualche modo la fine dello stato nazionale segni anche la fine della democrazia politica, che storicamente si è sviluppata ed affermata con gli stati nazionali e si basa sul diritto all’autodeterminazione dei popoli, intesi come nazioni. Il concetto di nazione o popolo-con-diritti sembrava chiaro 60 anni fa in tutto l’Occidente, anche se ogni stato ne dava una definizione giuridica diversa, in base allo ius soli o allo ius sanguinis – e a diverse interpretazioni sia dell’uno sia dell’altro ius. Oggi è proprio negli stati democratici che il concetto di nazione è rimesso in discussione, mentre negli stati con governi autoritari o dittatoriali la discussione è repressa. 

Gli osservatori più attenti parlano di ‘nuovo tribalismo’ anziché nuovo nazionalismo, perché tende a frazionare gli stati, non ad accorparli. Ma anche questo è un termine fuorviante, perché il legame tribale è su base famigliare. Oggi un ingegnere informatico indiano e uno californiano che lavorino per Google hanno più interessi e più cultura in comune che due cugini di cui uno faccia l’allevatore e l’altro il funzionario di banca, pur nella stessa regione. C’è una profonda tensione fra le spinte alla globalizzazione e le spinte alla protezione degli interessi locali, che lo stato nazionale sembra incapace di conciliare e governare. Ci occorre una pausa per ripensare sia le organizzazioni sovranazionali sia gli stati nazionali, ma la realtà incalza, il tempo forse sta per scadere. 

C’è una profonda tensione fra le spinte alla globalizzazione e le spinte alla protezione degli interessi locali, che lo stato nazionale sembra incapace di conciliare e governare

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