L’Europa dell’est è una delle zone più dinamiche del continente europeo, un’area territoriale che comprende nove paesi emersi dopo il crollo dell’Unione Sovietica (Bulgaria, Repubblica Ceca, Estonia, Lettonia, Ungheria, Lituania, Polonia, Romania e Slovacchia), relativamente poveri se comparati all’Europa occidentale. Questi paesi sono intrappolati fra Germania e Russia − posizione geografica sfortunata, che ha sempre determinato la loro storia. Oggi, tuttavia, accade qualchecosa di unico: Germania e Russia sono indebolite e non minacciano invasioni.
Nonostante rappresenti circa il 20% della popolazione totale dell’Unione Europea, l’Europa orientale costituisce solo il 7,4% del prodotto interno lordo dell’UE. I decenni di sottosviluppo economico sovietico non sono ancora stati recuperati. Tuttavia questa mancanza di sviluppo in qualche modo è una benedizione: l’abbondanza di manodopera qualificata e a basso costo ha attratto grandi investimenti in attività produttive dall’estero.
Se mettiamo a confronto la forza lavoro tedesca e quella polacca, quella polacca ha una percentuale maggiore di educazione post-secondaria e costa molto meno. Il salario minimo in Germania nel secondo trimestre del 2017 era di 1.498 euro al mese, in Polonia di 473 euro al mese. Nel 2016 lo stipendio medio in Germania era più di tre volte lo stipendio medio in Polonia e il costo totale del lavoro in Germania era più di quattro volte il costo del lavoro in Polonia.
Il lavoro in Europa dell’est non solo è poco costoso, ma sta diventando anche più produttivo. La produttività del lavoro in Romania, per esempio, è quasi raddoppiata fra il 2005 e il 2016. Nello stesso periodo la produttività in Francia è scesa di oltre il 4%.
Però il vantaggio di salari relativamente bassi spinge anche la forza lavoro fuori dalla regione. Secondo uno studio del Fondo Monetario Internazionale del 2016, negli ultimi venticinque anni quasi 20 milioni di persone – oltre il 5% della popolazione dell’Europa dell’est – hanno abbandonato la regione alla ricerca di posti di lavoro meglio retribuiti. Ad alti tassi di emigrazione si aggiungono bassi tassi di fertilità, il che in futuro potrà provocare la contrazione della richiesta interna per consumi. Fino ad ora però l’aumento dei salari e dell’occupazione ha continuato ad aumentare la domanda interna.
La maggiore vulnerabilità dei paesi dell’Est Europa è la loro dipendenza dall’esportazione, che li rende ostaggio delle variazioni globali dei prezzi, soprattutto in tempi di crisi. Da questa prospettiva la Slovacchia è al primo posto con il 93,8% del PIL derivante dalle esportazioni; ultima è la Romania con il 40%. Qualsiasi economia troppo dipendente da una sola componente del PIL è a rischio di recessione se tale componente dovesse subire una contrazione.
La dipendenza dalle esportazioni dell’Est Europa è anche dipendenza dalla Germania e dall’industria esportatrice tedesca, perché le aziende tedesche hanno esternalizzato la produzione di vari componenti nei paesi dell’Europa dell’est. La dipendenza da un solo partner rende queste economie ancora più vulnerabili.
In questo contesto però l’importanza strategica della regione per gli USA offre una possibile alternativa anche all’economia. Gli Stati Uniti intendono allacciare partenariati strategici con tutti i paesi dell’Europa orientale perché non vogliono che la Russia estenda la propria influenza verso ovest. Questo significa che dagli Stati Uniti probabilmente arriveranno investimenti e altri vantaggi economici. A differenza della Germania, gli USA non sono forti esportatori ma potenti importatori, con un fatturato di oltre 2 trilioni di dollari in importazioni nel 2016. Il commercio tra i paesi dell’Europa orientale e gli Stati Uniti è ancora relativamente piccolo, ma le esportazioni verso gli Stati Uniti sono in aumento costante. Tra il 2012 e il 2016 le esportazioni polacche negli Stati Uniti sono aumentate di oltre il 33%; le esportazioni ungheresi sono aumentate di oltre il 45%; e le esportazioni lituane sono triplicate.
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