Lo Stato Islamico si sta rapidamente ritirando dai pochi territori ancora occupati in Siria. Non tenta neppure di resistere. Ha resistito accanitamente per molti mesi a Mosul e a Raqqa, ma poi ha preso a ritirarsi quasi senza combattere, operando una specie di ripiegamento ordinato. La resistenza ha dato tempo all’ISIS di organizzare la fuga e il trasferimento all’estero dei suoi quadri e dei foreign fighter e il rientro in clandestinità dei combattenti armati della regione. Il Califfato islamico non ha più territorio, ma gli affiliati all’ISIS sono ancora vivi e vegeti in clandestinità in Iraq, in Siria e all’estero. Fra le destinazioni estere primeggia l’Asia Centrale, che sta vivendo un periodo economicamente e socialmente difficile ed è a maggioranza islamica.
L’Asia Centrale ha anche un’altra affinità con il Medio Oriente: è composta di stati con confini arbitrariamente definiti dagli Europei, in questo caso dalla Russia zarista prima e dall’Unione Sovietica poi. All’interno di questi confini le etnie sono state frammentate, appartengono a stati diversi. Questa frammentazione etnica era voluta, perché permetteva a regimi dispotici di gestire il potere giocando gli interessi di una etnia contro l’altra ed evitare sempre il formarsi di una coalizione di interessi maggioritari tanto forti da prendere il potere politico. È la solita, collaudatissima, tecnica del ‘divide et impera’, utilizzata da tutti gli imperi e da tutti i paesi egemoni della storia. In Asia Centrale si stratta di etnie per lo più di ceppo turco, non arabo, ma di lunghe tradizioni islamiche.
Questi stati ‘artificiali’ non hanno più alle spalle il sostegno politico, miliare ed economico di un grande impero quale fu l’Unione Sovietica. Hanno ancora legami economici solidi con la Russia, che però non gli evitano recessioni legate al calo del prezzo del petrolio e di altre materie prime, ma politicamente debbono reggersi in modo autonomo, poggiando sul consenso della società. Il consenso delle società sino ad ora è stato ‘comperato’ dai regimi col favoritismo nella distribuzione delle risorse, ma ovviamente quando le risorse diventano più scarse tutti i ‘clienti’ del regime tendono a entrare in agitazione.
Sia l’Unione Sovietica sia i regimi attuali dell’Asia Centrale hanno sempre messo la sordina all’islam, temendo che la religione fosse usata come ideologia politica dirompente. Ora che l’opinione pubblica è inquieta per le difficoltà economiche e le diverse etnie acuiscono le rivalità storiche per la divisione delle risorse la situazione dell’Asia Centrale offre un ottimo teatro d’azione per l’islamismo jihadista. Che l’attentatore di Manhattan di inizio novembre 2017 sia un Uzbeco associato all’ISIS non è uno strano caso: l’Uzbekistan è lo stato più debole dell’Asia Centrale, con confini porosi verso l’Afghanistan, pare già diventato uno principali centri operativi dell’ISIS dopo la sconfitta militare in Medio Oriente. Era un Uzbeco anche il terrorista che uccise 45 persone con una bimba nella metropolitana a Mosca il 15 aprile scorso. Era un Uzbeko l’autore della strage (39 morti) nel night club di Istanbul lo scorso gennaio.
Ma i jihadisti dell’Isis e di altre formazioni sconfitte sul terreno in Iraq e Iran sono già all’opera anche in altre parti del mondo, come si è visto nelle Filippine. Anche nelle comunità islamiche europee sono giunti e giungeranno altri jihadisti in clandestinità e gli attentati probabilmente aumenteranno nel prossimo futuro. La globalizzazione del terrorismo è una realtà che non possiamo ignorare.
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