Liberamente tratto da un articolo di Jacob L. Shapiro per Geopolitical Futures
In un Medio Oriente in subbuglio, in cui l’Iran sta riempiendo il vuoto lasciato dallo Stato Islamico, c’è un grande assente ed è proprio la maggiore potenza araba sunnita della regione, principale avversario di Teheran: l’Arabia Saudita. Mentre all’inizio della guerra civile siriana l’Arabia Saudita aveva un ruolo di rilievo in quanto principale sostenitore dei ribelli anti-Assad, ora è poco più di uno spettatore, costretto a restare a guardare mentre Iran, Turchia, Russia e Stati Uniti ridefiniscono la regione. A mancare non è la volontà di intervenire, ma i mezzi e le possibilità: il regno è impantanato nel conflitto in Yemen, che sta bruciando le sue riserve e, anche se la situazione è migliorata grazie all’aumento dei prezzi del petrolio, il paese continua ad accumulare debito.
Non potendo prender parte ai giochi in Siria, il principe ereditario Mohammed bin Salman (MBS) si sta concentrando sulle questioni interne, in primo luogo sul recupero di risorse attraverso una campagna anti corruzione. Ma non solo: dopo 35 anni di divieto è stato proiettato pubblicamente il primo film ed è stata preventivata la spesa di 64 miliardi di dollari nei prossimi dieci anni per la realizzazione di cinema e teatri. 64 miliardi di dollari sono il 10% del PIL del paese nel 2017; questo dimostra che in ballo non c’è tanto l’intrattenimento, quanto la volontà di ammansire e distrarre la popolazione mentre vengono ridefinite le strutture economiche e politiche del paese. Forse il principe ereditario pensa che, se panem et circenses hanno tenuto in piedi l’Impero Romano per secoli, potranno tenere in piedi anche l’Arabia Saudita fino al 2030, quando l’attuazione della “Vision 2030” avrà sperabilmente risolto i problemi del paese. In realtà è molto difficile che questo avvenga, anche perché bin Salman si sta facendo tanti nemici nei settori più conservatori e religiosi della società saudita e tra i prìncipi colpiti dalla campagna anti-corruzione. Se vuole sopravvivere politicamente, MBS ha bisogno di avere dalla sua parte l’esercito. Proprio in quest’ottica si spiega la recente riorganizzazione dei vertici militari e la nomina in posizioni chiave di ufficiali sconosciuti, la cui principale qualifica è la fedeltà al principe ereditario.
Ma i pericoli non vengono solo dall’interno. Il 2017 è stato un anno disastroso per la politica estera saudita: ha fallito nel tentativo di evitare che il Qatar rinsaldasse i vincoli con l’Iran e non ha ottenuto che l’alleato libanese dichiarasse guerra a Hezbollah (legato all’Iran), mostrando di aver ben poca influenza su Beirut. Mentre le milizie sciite sostenute dall’Iran hanno ottenuto importanti vittorie in Siria, i progressi nella guerra in Yemen sono stati scarsissimi e anche l’auspicata sconfitta dell’ISIS non sarà priva di aspetti negativi, perché ora è proprio l’Arabia a rischiare di diventare obiettivo delle operazioni del gruppo terroristico.
Ecco perché l’Arabia Saudita sta cercando di ridefinire la sua strategia. Al Primo ministro libanese si è senza dubbio offerto ciò che sempre l’Arabia Saudita offre ai suoi alleati: denaro. Quando l’Iraq ha chiesto aiuti per la ricostruzione, Riyadh ha offerto 1,5 miliardi di dollari e sarebbe disposta a sborsarne di più se bastasse a ridurre l’influenza dell’Iran su Baghdad. Il denaro è in fin dei conti l’unica cosa che l’Arabia può offrire ai paesi amici e questo spiega perché MBS stia cercando di recuperare denaro dai prìncipi, nonostante il paese possa contare ancora su 500 miliardi di dollari di riserve ufficiali.
Insieme a Israele, l’Arabia Saudita è il paese con i migliori armamenti del Medio Oriente, ma ha pochi uomini. Gli arsenali militari da soli non bastano, serve anche qualcuno che li usi. Finché non risolverà questo problema, varrà a poco aumentare il budget per la difesa del 9%, come avvenuto nel 2017, o del 12%, come previsto per il 2018.
All’Arabia Saudita non resta che fare il tifo per la Turchia in chiave anti-iraniana e sperare che le riforme del principe bin Salman funzionino. Ma la speranza non è mai una buona strategia politica e il rischio che si corre in caso di insuccesso è la guerra civile.
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