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È difficile capire quando un regime sta per cadere per esaurimento interno. Il crollo avviene quando il regime chiama alla lotta contro le difficoltà, ma gli ufficiali e i burocrati rispondono con stracca osservanza più formale che sostanziale, perché hanno perso fiducia nella capacità del regime di risolvere i problemi. Può succedere dopo un periodo piuttosto lungo di peggioramento evidente delle condizioni di vita della maggioranza. Il crollo dell’Unione Sovietica è il caso più eclatante; eppure soltanto due anni prima di crollare l’URSS sembrava destinata a durare cent’anni. Oggi molti segni fanno pensare che il regime iraniano sia vicino al crollo, ma la percezione può essere falsa e il regime potrebbe avere ancora la forza di sopravvivere per qualche lustro.
Il regime iraniano deve affrontare problemi sia all’interno sia all’estero. All’estero Israele e Stati Uniti guidano la campagna per sottoporre Teheran a sanzioni più rigide per aver violato la sostanza dell’accordo anti-nucleare multilaterale (JCPOA) firmato nel 2015. L’obiettivo di Israele e degli USA è contrastare il tentativo in atto da parte dell’Iran di raggiungere il pieno controllo del territorio che si estende fino Mediterraneo, attraverso Iraq e Siria. Ma il regime deve affrontare anche problemi interni, fra cui gli scioperi e le proteste nella zona curda dell’Iran, in seguito alla chiusura dei confini fra il Kurdistan iraniano e il Kurdistan iracheno.
Lo scorso autunno truppe iraniane furono inviate in Iraq ad aiutare l’esercito iracheno a riconquistare la provincia di Kirkuk, da molti mesi sotto il controllo dei peshmerga curdi (milizie armate per la difesa del territorio) che l’avevano difesa dall’avanzata dell’ISIS. Il 25 settembre 2017 i Curdi iracheni avevano indetto un referendum consultivo sull’indipendenza del Kurdistan dall’Iraq; il governo iracheno aveva chiesto aiuto all’Iran per impedire una possibile secessione e riconquistare le province che non fanno ufficialmente parte della regione autonoma curda. L’Iran aveva chiuso le proprie frontiere con il Kurdistan iracheno, impiegando anche una dozzina di carri armati per impedire il passaggio. Ma attraverso quel confine sui monti Zagros passavano ogni giorno molte migliaia di “kolbars,” portatori a spalla di prodotti di ogni genere (come i nostri ‘spalloni’ che portavano merci di contrabbando attraverso il confine svizzero), incluse armi e droga di contrabbando, ma soprattutto generi di consumo per la popolazione. Questo contrabbando lega le due parti della regione curda al di qua e al di là del confine di stato e alimenta un’economia informale che sfugge alla tassazione. La recente decisione del governo iraniano di promuove l’autarchia ed evitare l’importazione di beni dall’estero ha reso il contrabbando più importante e più proficuo. Lo stesso governo iraniano calcola che i kolbars curdo-iraniani che vivono di contrabbando siano almeno 80000.
Ora le manifestazioni dei Curdi iraniani sono state soffocate, soltanto la cittadina di Baneh è ancor bloccata da scioperi. Ma altre sacche di scontento danno origine a manifestazioni di protesta in altre zone. Significative dimostrazioni di protesta si sono tenute il primo maggio davanti al parlamento, con cartelli contro la povertà, la corruzione e le impiccagioni dei dissidenti. Infatti nel solo mese di aprile sono stati impiccati 19 giovani dissidenti, fra cui uno stimato allenatore sportivo, Bahman Varmazyar. I contadini della provincia di Isfahan protestano invece da mesi per la mancata gestione delle acque, la mancanza di dighe e bacini di raccolta, per cui ogni periodo di siccità distrugge i loro raccolti. E ci sono le frasi di protesta che circolano anonime sulle banconote, sempre più numerose, e fanno conoscere la protesta in ogni angolo del paese. Il governo ha vietato Telegram, che era usato da 40 milioni di Iraniani, per contenere la diffusione di messaggi di protesta, ma non può proibire la circolazione della banconote.
Lo scontento degli Iraniani nasce dalle grandi difficoltà economiche interne, causate dall’enorme costo delle lunghe e ampie guerre che l’Iran finanzia, gestisce o sostiene in Iraq, Siria e Yemen. Mancano le risorse per gli investimenti in infrastrutture e migliorie all’interno, dopo anni e anni di finanziamento di conquiste all’estero. La parziale sospensione delle sanzioni dopo la firma del JPCOA nel 2015 ha alleviato le difficoltà permettendo di aumentare le esportazioni di petrolio e la firma di contratti internazionali (con paesi europei) per lo sviluppo di nuove infrastrutture.
Nel mese di maggio l’amministrazione americana deciderà se rinnovare il JPCOA oppure reimporre sanzioni più severe, che potrebbero obbligare il regime iraniano a scegliere fra il dedicare le poche risorse a migliorare le condizioni interne abbandonando la politica di estensione dell’egemonia all’estero, oppure continuare le sue imprese all’estero a rischio di aumentare le proteste all’interno.
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