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Sono passati quarant’anni dalle riforme di Deng Xiaoping e il miracolo economico cinese che ne è conseguito è stato incredibile, dato che più di 800 milioni di persone sono uscite dalla povertà nell’arco di un paio di generazioni e il paese è diventato parte fondamentale dell’economia mondiale. Ma ora stanno venendo meno le condizioni che l’hanno resa possibile.
La crescita cinese è stata alimentata da tre fattori: esportazioni a basso costo, enormi investimenti e un’irripetibile privatizzazione di terre e risorse. Ma la dipendenza dalle esportazioni rende il paese troppo vincolato alle economie dei paesi acquirenti. Se l’economia americana o quella europea subissero un crollo, quella cinese le seguirebbe. La crisi americana del 2008, cui segui una recessione più ampia, fece perdere il posto di lavoro a circa 20 milioni di lavoratori cinesi.
Inoltre il livello di vita dei lavoratori cinesi cresce e i salari aumentano, rendendo più difficile aumentare l’esportazione di prodotti di basso prezzo. È la cosiddetta “trappola del reddito medio” e la Cina sta cercando di evitarla puntando sull’high-tech – cioè su esportazioni ad alto valore aggiunto − ma in questo campo ci sono concorrenti estremamente competitivi.
Gli investimenti, per gran parte statali, hanno permesso all’economia cinese di restare vivace anche in un contesto di calo globale dei consumi e di mantenere stabili i livelli di occupazione. L’enorme quantità di investimenti decisi a fine 2009 ha permesso alla Cina di riprendersi dalla crisi più rapidamente dei paesi occidentali, ma ha avuto anche conseguenze negative: scarsa redditività degli investimenti, enorme bolla dei valori di terreni e immobili, eccessivo indebitamento di aziende, banche e amministrazioni locali.
La Cina è in corsa contro il tempo per riequilibrare la sua economia e ora ha un motivo in più per farlo: mettersi al riparo dalle conseguenze delle spinte protezioniste in occidente. Il processo è già iniziato. Secondo i dati ufficiali, che vanno presi con le pinze, le esportazioni cinesi sono diminuite dal 38% al 20% del PIL fra il 2016 e il 2017. Ma questo successo è frutto innanzitutto degli investimenti e non, come Pechino vorrebbe, della crescita dei consumi interni. Secondo l’Institute of International Finance tra il 2008 e il 2017 il debito cinese è passato dal 170% a circa il 300% del PIL. Ciò rappresenta un rischio enorme per l’economia del paese.
All’inizio di questo decennio la Cina aveva buoni motivi per essere ottimista: i consumi crescevano e la quota di PIL prodotta dai servizi stava raggiungendo il 50%, cosa importante perché il terziario è un settore che richiede capitali minori rispetto a quello industriale, è meno dipendente dalle esportazioni e spesso riflette una spesa crescente dei consumatori. Però la redditività degli investimenti è in rapida decrescita. Inoltre la crescita dei consumi è basata pesantemente sulla spesa pubblica, che costituisce più del 25% dei consumi interni.
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