Ci voleva un’indagine del New York Times per far parlare i nostri mezzi d’informazione di imprenditoria artigiana, settore economico in cui l’Italia ha sempre primeggiato, ma che è stato distrutto dalla grande distribuzione e dai grandi marchi, anche grazie alla politica dissennata che dagli anni ’80 a oggi ha creduto che si potesse vivere per sempre di un temporaneo primato tecnologico e di un ancor più temporaneo primato finanziario. Ora però l’economia artigiana ha la possibilità di rinascere, organizzandosi in forme diverse dal passato ma utilizzando un know how (competenze, conoscenze e capacità) che corre il rischio di perdersi.
In questi giorni La Stampa ha ripreso e approfondito l’argomento, affrontato anche da Radio 3. Da vecchia ex imprenditrice che ha vissuto tutta l’evoluzione commerciale del settore artigiano dagli anni ’60 in poi, voglio sottolineare il fatto che oggi è possibile che i giovani tornino a sviluppare imprese artigiane di successo qui in Italia: occorre dirglielo, occorre farglielo capire, occorre aiutarli. I media affrontano l’argomento in chiave scandalistica, la politica lo userà per imporre restrizioni e regole inefficaci nel migliore dei casi, soffocanti nel peggiore: le solite ‘grida’ di manzoniana memoria. Io voglio invece partire da un breve excursus sull’evoluzione delle reti produttive e commerciali nell’ultimo mezzo secolo, per indicare la falla oggi evidentemente aperta nel sistema, attraverso cui i giovani possono farsi avanti con formule nuove e sviluppare una nuova economia.
Negli anni ’50 e ’60 l’obiettivo economico di ogni stato e dell’intera Comunità Economica Europea era lo sviluppo della produzione industriale di massa di beni di consumo (autoveicoli, elettrodomestici, utensili) e di beni strumentali (escavatrici, macchinari per l’industria, motori navali e aerei). Presto assunse dimensioni industriali anche la produzione di cibo e poi quella dell’abbigliamento. A inizio degli anni ’60 formaggi, latticini, marmellate e conserve, cioccolato e torrone, panettoni e caramelle prodotte su vasta scala e dotate di marchi di fabbrica pubblicizzati si vendevano capillarmente su tutto il territorio nazionale, dalle botteghe dei villaggi alpini dal cui soffitto ancora pendeva il nastro moschicida alle tabaccherie della Locride. Locatelli, Galbani, Zuegg, Ferrero, Sperlari, Motta erano conosciuti ovunque, anche se sopravvivevano migliaia di piccoli produttori locali. Poi si aggiunsero i marchi di caffè come Lavazza o Deorsola, i marchi di cantine vinicole e quelli delle acque minerali e delle bibite frizzanti (Recoaro, San Pellegrino, Zucca…). Assunse poi dimensioni industriali, dunque marchio di fabbrica pubblicizzato, la produzione di abbigliamento: Facis e Cori si ricordano ancora oggi.
Non si trattava in genere di marchi nuovi: molte aziende e molti marchi risalivano all’anteguerra, ma per la prima volta parlavano direttamente al consumatore tramite la radio o la televisione e per la prima volta utilizzavano metodi industriali di parcellizzazione dei compiti per la produzione e per la logistica, vendendo tramite una rete di ‘piazzisti’ che copriva tutto il territorio nazionale. Fino agli anni ’50 i consumatori si erano affidati alle capacità del negoziante, che doveva essere un grande esperto di prodotto e conoscere bene la clientela locale, perciò era il vero artefice delle fortune dei produttori e della soddisfazione del cliente. La sua opera di mediazione non era una pura opera di distribuzione: il negoziante sapeva valutare e scegliere i migliori prodotti al giusto prezzo, in funzione della gamma dei suoi clienti, di cui conosceva età, gusti, mentalità, necessità, potere di spesa. Il negoziante deteneva cioè una conoscenza che gli permetteva di trattenere per sé una parte significativa della catena di valore, cioè poteva guadagnare almeno tanto quanto il produttore, spesso di più. Fino all’inizio degli anni ’70 i bravi negozianti guadagnavano spesso più dei produttori artigiani. Ma quando i produttori iniziarono a parlare direttamente ai consumatori tramite la pubblicità radiofonica e televisiva, o con l’affissione di manifesti per le strade, il potere economico dei produttori crebbe rapidamente, quella dei commercianti scemò: i consumatori volevano i prodotti che erano pubblicizzati, i negozianti dovevano averli, e per averli dovevano accettare le condizioni dei produttori, i quali non soltanto imponevano i prezzi di vendita, ma obbligavano anche i negozianti a escludere o includere nella loro offerta certi prodotti. Valga un esempio per tutti: i punti vendita che volevano vendere la Coca Cola erano obbligati a comperare anche tutte le altre bibite, alcooliche o non alcooliche, vendute dal gruppo Coca Cola con vari marchi e non potevano tenere prodotti in concorrenza. Negozi e bar nell’arco di una decina di anni finirono col vendere quasi esclusivamente bibite del gruppo Coca Cola, perciò aziende senza marchio o con marchio meno forte, come San Pellegrino o Recoaro, quasi sparirono dal mercato e furono costrette o a chiudere o a vendere l’azienda e il marchio al gruppo Coca Cola, alle condizioni dettate dalla Coca Cola (cosa che molti fecero). Situazioni analoghe si produssero in tutti gli altri settori alimentari – i fenomeni di mercato si manifestano sempre per primi nel settore alimentare.
Alcuni commercianti passarono alla riscossa e si organizzarono in Francia nei primi anni ’70, seguendo esempi americani e inglesi, per creare la grande distribuzione: enormi supermercati self-service, spesso in grandi centri commerciali che ospitavano decine di altri negozi e attrazioni per le famiglie, capaci di attirare e accogliere decine di migliaia di persone ogni giorno. Il successo li portò a dilagare in tutta Europa e anche in altri continenti. Questi enormi centri commerciali attrezzati hanno riportato una larga fetta di potere economico nella mani di questi nuovi commercianti, che però non sono più esperti di nessun prodotto, né di esigenze dei consumatori, ma sono specialisti di allestimento e gestione di questi spazi, in modo da attirare grandi masse di potenziali consumatori. Il loro guadagno deriva fondamentalmente dal taglieggiamento dei produttori che vogliono far arrivare i loro prodotti ai consumatori: chi vuole mettere i suoi prodotti sugli scaffali del supermercato o nei negozi che lo circondano deve pagare premi e contributi a getto continuo per iniziative su cui non ha potere decisionale, spesso senza sapere a quanto ammonterà il totale a fine stagione. Questo taglieggiamento ha causato il fallimento di migliaia di piccole e medie aziende artigiane che, pur facendo ottimi prodotti a prezzi ragionevoli, si ritrovano a venderli in perdita tramite la GDO (Grande Distribuzione Organizzata) sperando di rifarsi la stagione successiva, ma la stagione successiva non riescono a vendere senza accettare ancora i taglieggiamenti – e finiscono col fallire. Non tutte le catene della GDO si comportano in questo modo: alcune ci tengono a fornire buoni prodotti ai consumatori e mantenere buoni rapporti di collaborazione con i buoni produttori, senza ridurli sul lastrico. L’italiana EsseLunga ad esempio è forse la più onesta e la più professionale fra le catene GDO del mondo. Ma non è la norma. La conseguenza negativa per il consumatore è che il livello medio di qualità dei prodotti venduti in questi centri è molto inferiore a quello di alcuni decenni fa, perché i costi addebitati da chi possiede il centro commerciale e il suo marchio sono così alti che per mantenere prezzi abbastanza bassi per la vendita di massa bisogna tagliare molto sul costo − dunque sulla qualità − del prodotto.
Nel campo dell’abbigliamento di qualità media o alta alcuni imprenditori ricorsero a un sistema che coniugava la forza del marchio di produzione e la forza della proprietà dello spazio di vendita per ottenere il controllo del mercato: l’occupazione fisica degli spazi urbani e la creazione di identità forti dei punti vendita, acquistando i marchi di produttori forti o creando marchi propri. Oggi quasi la metà dei marchi dell’abbigliamento di lusso – o alta moda − sono proprietà di un solo gruppo mondiale – proprio come il solo gruppo Cola Cola è proprietario della maggioranza dei marchi di bibite che tutti noi beviamo, o la Nestlè è proprietaria di migliaia di marchi di prodotti alimentari in tutto il mondo, dai gelati ai biscotti al caffè. Nell’abbigliamento però alla proprietà del marchio si accompagna la proprietà di reti di negozi monomarca che hanno occupato le vie centrali di tutte le grandi città del mondo − tutti uguali, tutti con lo stesso look e gli stessi prodotti − oltre a occupare gli spazi nei centri commerciali del lusso. Oggi da Seattle a Milano, Bangkok o Pechino i centri delle città hanno tutti gli stessi negozi, la stessa offerta, gli stessi marchi. I negozi sono bellissimi, raffinati, costosi. Sono gestiti in franchising da persone locali che debbono seguire esattamente la stessa sceneggiatura (si tratta di palcoscenici, più che di punti vendita tradizionali). Ovviamente il prezzo di vendita dei prodotti è del tutto sproporzionato rispetto al costo di produzione del prodotto stesso. Sul costo di produzione e sul prodotto stesso occorre risparmiare all’osso, come dimostra l’inchiesta del New York Times, benché il prodotto vada in vendita al consumatore a prezzi che sono da 20 a 50 volte superiori ai costi di produzione.
Questa situazione però apre nuove spazi ai produttori, se sanno organizzarsi. Nelle catene di negozi monomarca ormai si vendono le stesse (noiose) cose ovunque nel mondo, per lo più a prezzi carissimi rispetto al costo di produzione: c’è spazio per presentare e vendere direttamente prodotti diversi, di gusto diverso e di buona qualità. Come sempre il fenomeno è già molto evidente nel campo alimentare: già vediamo mercati gestiti dai produttori e dai coltivatori, ricerca di prodotti di eccellenza, di prodotti tradizionali, di prodotti DOC; acquisto di prodotti a chilometro zero; moltiplicazione di ristoranti e pizzerie che gareggiano in eccellenza utilizzando prodotti e ricette locali.
Ora iniziano a vedersi anche le prime timide sartorie di periferia, torna qualche calzolaio. Ma la vera opportunità è utilizzare la cultura, il design, la tradizione locale, la bellezza del territorio per vendere non soltanto visite turistiche e prodotti alimentari, ma anche mille altri prodotti e servizi − che però bisogna saper creare e pubblicizzare e vendere anche online. È necessario creare cooperative e gruppi che producano sinergie sfruttando congiuntamente tutte le possibilità offerte dal territorio – e sono tante, tantissime, basta saperle vedere e saper ‘fare sistema’. Occorre che i giovani sappiano lavorare nel concreto, sappiano ‘fare’, anche se oggi la nostra scuola non li prepara a questo, perché non si è adeguata ai cambiamenti della realtà economica e sociale.
Ci sono già giovani imprenditori che hanno intrapreso questa via e hanno riaperto con grande successo attività artigiane collegate ad attività culturali e turistiche. Sono piccole imprese che potrebbero avere un grande sviluppo, se trovassero altri giovani disposti a mettersi in gioco, sia utilizzando le nuove tecnologie per offrire servizi, sia imparando mestieri antichi che pochi ancora conoscono, ma che sono importanti per produrre eccellenza. Dove trovare tanti altri giovani disposti a imparare e provare?
Laura Camis de Fonseca
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