In Italia iniziò attorno al 1980, quando anche le medie aziende si dotarono di mainframe (un unico ‘cervello’ e un unico archivio con tanti terminali per i collaboratori), che obbligava tutti gli operatori a usare schermate predefinite e archivi centralizzati. I sistemi erano per lo più della IBM, più raramente della Hewlett Packard. Il software di base disponibile prima del 1980 permetteva di fare ben poco oltre alla contabilità, ma in brevissimo tempo squadre di programmatori produssero ogni altro software necessario per gestire centralmente e in cascata acquisti, vendite, incassi e pagamenti, linee di credito, movimentazione di magazzino, infine anche la progettazione. Grazie a questi strumenti il lavoro burocratico delle aziende subì un processo di razionalizzazione e di controllo centralizzato paragonabile a quello avvenuto 60 anni prima nella produzione con l’invenzione della catena di montaggio. Fu la prima vera rivoluzione della burocrazia, ma ci fu soltanto nelle aziende private. Nel settore pubblico l’Italia avviò la digitalizzazione dei servizi e delle amministrazioni con decenni di vergognoso ritardo.
Il software proponeva agli impiegati i dati da inserire, a seconda del tipo di operazione e del tipo di cliente/ fornitore/collaboratore, segnalava le lacune da colmare prima di poter procedere con l’operazione, segnalava le difformità o le anomalie rispetto agli standard e richiedeva l’autorizzazione di un capoufficio responsabile, dotato di password, per eventuali eccezioni. Vi sembra cosa da poco? Negli anni ’60 e ’70 e ancora nei primi anni ’80 ho conosciuto decine di bravi imprenditori che, nel passaggio da dimensioni abbastanza piccole per controllare la gestione a dimensioni che richiedevano l’impiego di decine o centinaia di persone negli uffici amministrativi e commerciali, fecero fallimento nell’arco di cinque anni. Alcuni impiegati ‘dimenticavano’ di fatturare le merci spedite, altri ‘dimenticavano’ di registrare e versare in banca alcuni incassi, altri ancora registravano e pagavano fatture a fornitori che non erano affatto fornitori, ma truffatori organizzati. Poi c’erano gli addetti ai rapporti con i clienti che cedevano volentieri alla richiesta di sconti extra e non applicavano i listini, gli addetti agli acquisti che accettavano prezzi più alti di quelli dell’accordo di base… La gestione digitalizzata permise di bloccare questi dissanguamenti quotidiani, controllando in automatico l’intero processo logistico e amministrativo. Non si ridusse il numero di addetti, ma variò la sua composizione: servivano molti programmatori e gestori di sistema, un certo numero di addetti all’immissione e alla variazione delle tabelle di base, operatori più qualificati a contatto con l’esterno. Scrivani e dattilografe sparirono.
Il secondo grande cambiamento riguardò la comunicazione. La mia azienda lavorava con decine di fabbriche in Cina, India, Pakistan, Indonesia, Tailandia, Malesia, Vietnam, Bulgaria: entro il 1990 fu possibile mandare e ricevere via fax disegni, schede tecniche, ordini di produzione, quotazioni. Anche gli ordini dei clienti arrivavano (migliaia ogni mese) già codificati, attraverso i terminali portatili degli agenti. Noi a nostra volta potevamo mandare offerte mirate direttamente ai clienti, anche con cadenza settimanale. Fu un’enorme velocizzazione e semplificazione delle operazioni, ma non fu una vera rivoluzione: facevamo più rapidamente e con facilità quello che prima richiedeva lunghi tempi, ma la logica strutturale del processo di comunicazione era la stessa. Si risparmiavano costi di grafici e tipografi all’esterno, ma occorreva avere bravi grafici all’interno, in grado di usare i sistemi digitali.
L’ultimo grande cambiamento prodotto dal digitale, che io però non seguii perché vendetti l’azienda e uscii dal mercato, fu la possibilità di vendere direttamente ai consumatori online, saltando tutta la catena distributiva. Questa è davvero una possibilità rivoluzionaria, soprattutto per prodotti dematerializzati: testi, musica, immagini, dati. In questi campi si è prodotta una vera rivoluzione. Ma per i prodotti costituiti di materia il discorso è diverso: i consumatori acquistano il prodotto se lo conoscono dal vero. I produttori perciò non possono fare a meno di avere anche punti vendita tradizionali.
Nel campo della produzione i robot hanno portato grandi razionalizzazioni e grandi risparmi alla catena di montaggio negli ultimi 15 anni, ma il processo di sostituzione della manodopera con i robot era già iniziato nei tardi anni ’70. Da allora le migliorie dei robot e dei sistemi di progettazione sono state enormi, ma si è trattato per l’appunto di migliorie di processo, non di rivoluzione del processo produttivo. La sostituzione degli uomini alla catena di montaggio con robot ‘intelligenti’ aumenta la flessibilità e la velocità e riduce i costi, ma non cambia il sistema della catena di montaggio, che potrebbe invece essere rivoluzionato davvero dalle stampanti 3D – che però al momento hanno possibilità limitate.
Possiamo concordare con Friedman che la rivoluzione tecnologica del microprocessore ha già raggiunto l’apice e d’ora in poi produrrà ancora migliorie di processo, ma senza più aprire nuovi orizzonti al nostro sistema di vita e di lavoro?
Nel frattempo la nostra scuola pare non essersi neppure accorta della rivoluzione digitale, non l’ha né propugnata né utilizzata. Anche per questo l’economia italiana ha subito un tracollo dagli anni ’90 in poi; non abbiamo saputo vedere e capire la rivoluzione produttiva, non l’abbiamo fatta nostra, ci siamo attardati, abbiamo puntato i piedi per resistere ai cambiamenti. Ora diamo sussidi ai disoccupati (chi li pagherà?) perché non siamo stati capaci di favorire lo sviluppo di nuove competenze imprenditoriali e di nuovi posti di lavoro.
Laura Camis de Fonseca
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