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Il potere propulsivo della produzione industriale e delle innovazioni tecnologiche e scientifiche che l’hanno accompagnata ha trasformato a grande velocità il mondo dalla fine del 1700 in poi. La crescita della ricchezza (si veda grafico a lato) ha avuto un’impennata straordinaria, ben superiore alla crescita demografica, migliorando il tenore di vita dell’umanità intera e riducendo le differenze sociali. È stato un processo tutt’altro che lineare e omogeneo, un percorso tutt’altro che pacifico. Iniziato in Europa, ha dato grande potere e grande ricchezza in primis all’Occidente, dove ha favorito lo sviluppo degli stati nazionali (dimostratisi più stabili e più solidali degli imperi, ma abbastanza estesi per sostenere lo sviluppo dell’industria) e della democrazia (dimostratasi più adatta a gestire il rapido flusso dei cambiamenti senza portare alla guerra civile), ma ha anche dato nuova terribile vita al razzismo assassino di minoranze interne e di popolazioni coloniali.
L’adozione universale del modello di sviluppo basato sulla produzione industriale di massa ha poi portato benessere anche nelle altre parti del globo, pur se in periodi diversi e in modo ineguale. In Cina e in India sta ancora alimentando una grande crescita, in Africa ha iniziato a cambiare le società da poco tempo. Nel frattempo però quel modello è entrato in crisi in Occidente. Nella nostra parte di globo la produzione di massa non funziona più come promotore costante di maggiore benessere per tutti. Altri modelli di sviluppo emergeranno, legati a nuove tecnologie, ma probabilmente ne beneficeranno (almeno nei primi decenni) soltanto minoranze che, per quanto corpose, non potranno né gestire il potere politico né sostenere a proprie spese un sistema efficace di welfare, né aprire prospettive soddisfacenti di crescita per le maggioranze. Questo è il grande problema che la politica è chiamata a gestire, qui e oggi, in modo da prevenire l’aggravarsi degli squilibri sociali e gli scoppi di violenza fra gruppi all’interno dello stato, di cui si hanno già le prime avvisaglie. Ma per pensare le politiche del futuro non è utile ricorrere ad analogie con il recente passato, quando la violenza delle masse contro le minoranze e le élite nasceva da dinamiche diverse da quelle odierne.
Gli scoppi di violenza nelle masse che vedono la possibilità di migliorare rapidamente le loro condizioni di vita avvengono contro le élite che, con la loro stessa presenza, ostacolano il raggiungimento dei posti di comando. Sono scoppi intensi e spesso straordinariamente feroci, che fanno strage di minoranze investite di autorità e/o potere economico e culturale. Si pensi non soltanto ai genocidi del XX secolo (contro gli Armeni, gli Ebrei e i Tutsi), ma anche alla ferocia della Comune a Parigi nel 1871 e prima ancora nel 1792. La violenza non si rivolge verso i gruppi etnici o culturali più poveri e privi di potere sociale e politico. ‘Proletari di tutto il mondo unitevi!’ è uno slogan obsoleto, che però ancora funziona in società in rapida crescita economica come la Cina o il Nepal. Quando negli anni ’70 a Torino si decise di dare ai Rom non soltanto scuola, acqua ed elettricità gratis negli accampamenti, ma di agevolare il loro accesso alle case popolari, i cittadini non protestarono. Nella loro corsa verso un benessere che pareva a portata di mano non avevano paura della competizione dei più miseri, ma di quella dei più bravi. Ora invece l’assegnazione di case popolari ai Rom genera rivolte fra gli altri residenti, perché la competizione non è più una corsa in avanti, ma l’accaparramento di un paracadute per attenuare il trauma della caduta. È una competizione con i più poveri e i più deboli per afferrare qualche sostegno. Aprire strade di accesso privilegiato per i più deboli o per gli svantaggiati può essere una buona politica in periodi di crescita per tutti, ma inimica le maggioranze in periodi di crisi economica e di blocco della scala sociale. Le scelte dei governi nell’adozione di incentivi e disincentivi non sono questione di giustizia ma di efficacia sociale, economica e politica.
Che cosa avviene nelle società che subiscono un declino economico che la politica non riesce a fermare, di cui perciò non si vede il termine? Tutti conosciamo gli esempi della caduta dell’Impero romano e dell’Impero ottomano. Alla caduta economica si accompagnano il ristagno culturale e la perdita di efficacia del governo centrale che si trova a corto di risorse, quindi si innescano processi di frantumazione interna: ribellioni, interminabili guerre civili fra gruppi e gruppuscoli sempre più piccoli e più partigiani (si pensi agli eventi in Medio Oriente negli ultimi trent’anni), formazione di piccoli poteri locali autonomi e irrequieti. Infine invasioni dall’esterno, spesso agevolate da qualche gruppo locale. I processi in corso in Europa dalla crisi del 2008 in poi possono sembrare l’inizio di una involuzione del tipo appena descritto, che dobbiamo contrastare.
Che fare? Occorre rimettere in moto l’economia e – soprattutto – ridare alla maggioranza delle persone la speranza di mobilità sociale verso l’alto, altrimenti anche noi vedremo fratture interne, rivolte locali, e lo sviluppo di sempre maggiore aggressività verso i gruppi più deboli. Non bastano – non sono mai bastati − gli appelli verbali alla solidarietà e alla giustizia. Per riattivare l’economia e la scala sociale (prima che sia troppo tardi) si possono tentare alcune strade, sperando in bene, ma una cosa è certa: prima di tutto occorre smantellare vecchie istituzioni e vecchi regolamenti adatti a una economia basata sull’incremento della produzione industriale di massa, ma non più sostenibili né utili in un’economia che non soltanto è stagnante, ma quando tornerà a crescere lo farà in altri modi, non più con grandi fabbriche e grandi uffici in cui molte persone svolgono lavori ripetitivi e standardizzati. Per rimodernare o ricostruire occorre demolire alcune parti dei vecchi edifici, senza aspettare che lo faccia con violenza la storia. Occorre cambiare la scuola fin dall’infanzia perché promuova non l’apprendimento nozionistico ma la progettualità e l’innovazione. Occorre ridurre grandemente i costi della burocrazia, rimuovere tutti gli ostacoli per l’avvio di nuove imprese, ridurre le tasse e gli oneri sociali che pesano sul costo del lavoro. Occorre un programma di investimenti pubblici in infrastrutture e in servizi utili a tutti, che funzioni come alternativa produttiva al welfare. Ma questo richiederebbe un consenso politico che per ora in Europa non c’è, tanto meno in Italia, che è uno dei paesi in cui le tasse e la burocrazia sono più soffocanti al mondo. O si riesce a costruire il consenso per le profonde riforme necessarie, o presto vedremo l’ammutinamento delle regioni più produttive che rifiuteranno di pagare troppe tasse per sostenere le regioni meno produttive.
Il rifiuto di solidarietà è evidentissimo a livello europeo: di fronte alla crisi finanziaria ed economica, la Germania (spalleggiata da Francia e dal Benelux) ha sostenuto politiche mirate alla propria convenienza, non mirate a sorreggere anche gli altri paesi dell’Unione. Il governo tedesco ha svolto in modo eccellente il suo compito nell’interesse dei Tedeschi, ma ha impietosamente messo in luce la totale inesistenza di istituzioni europee che mirino alla coesione sociale ed economica dell’Unione Europea. La retorica europeista ha mostrato la corda, le popolazioni hanno perso fiducia nell’Unione, che perciò non potrà rimanere in piedi così come è: si frantumerà, ormai è evidente. Questo forse impedirà che la frammentazione attraversi invece gli stati nazionali, forse frenerà l’uscita della Catalogna dalla Spagna e la richiesta di autonomia fiscale delle regioni padane in Italia. Ma se le politiche dei governi ‘populisti’ e ‘sovranisti’ non dessero rapidamente risultati apprezzabili, potrebbero addirittura accelerare la frammentazione interna, facendo perdere la speranza e la pazienza a chi vuole ricominciare a progettare e costruire il futuro.
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