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Un gruppo umano, ovviamente. Ma che cosa lo rende ‘nazione’? La risposta dei geopolitici o geostorici è: la disponibilità degli individui a morire per la salvezza di quel gruppo, benché composto per lo più da sconosciuti. Ma cominciamo dal principio…
Il seme delle ‘nazioni’ sono famiglie più o meno allargate, che lavorano insieme per trovare o produrre cibo e altri beni necessari o utili alla vita, e si difendono insieme dagli assalti dei predoni. Se non si difendono, vengono uccisi dai predoni oppure assimilati a forza da gruppi più forti e più grandi (ricordate il ratto delle Sabine da parte dei Romani, o delle donne yazide da parte dell’ISIS?) e spariscono in quanto gruppo specifico, pur sopravvivendo come persone (soltanto gli Ebrei trovarono il modo di mantenere l’identità con l’obbligo dello studio, come ben spiega il magnifico saggio I pochi eletti, il ruolo dell’istruzione nella storia degli Ebrei, 70-1492, di Botticini ed Eckstein. Lo studio obbligatorio li portò a formare una rete di commercianti e professionisti che continuò a lavorare insieme anche a distanza, seguendo le stesse norme, pur senza avere nessun potere militare e territoriale, e diventarono ‘nazione cosmopolita’, apparente controsenso storico. In realtà oggi le élite culturali globali tendono a costituire una unica ‘nazione cosmopolita’.
I modi del lavorare e del difendersi insieme variano moltissimo a seconda di dove si vive e come ci si procura il necessario per vivere. I cacciatori-raccoglitori vivevano in piccoli gruppi che sapevano far bene poche cose – ricavare frecce o coltelli dalle pietre, circondare la preda, ucciderla e arrostirla, riconoscere frutti e semi edibili da quelli velenosi – e si spostavano molto frequentemente. Se si scontravano con gruppi rivali, si allontanavano verso un altro territorio senza quasi combattere.
Gli agricoltori-allevatori hanno bisogno di essere tanti e di specializzarsi in tanti tipi di lavori diversi, rimanendo stabilmente su di un territorio che deve essere costantemente irrigato e coltivato, deve avere grandi silos, fornaci, canali, mulini, muri di difesa, case per uomini e animali. Il territorio deve essere circondato da barriere naturali (mari, montagne o deserti, o foreste fittissime) per non essere invaso e saccheggiato dopo il raccolto. Il gruppo non può abbandonare il territorio in mani nemiche, perché lasciarlo vuol dire non aver più né cibo né riparo. Lasciare il territorio significa la morte per fame e freddo di larga parte del gruppo, perciò le persone sono quasi sempre pronte a combattere e morire per salvare il territorio e le proprie case. Morire per morire, per il gruppo è meno rischioso combattere che fuggire. L’esperienza e il ricordo del combattere e morire insieme, se accompagnati dal continuare a lavorare insieme, forgia quello che chiamiamo l’identità della nazione, che ogni nazione celebra con monumenti che considera sacri, anche quando l’identità nazionale non è più legata a una comune appartenenza religiosa. I grandi leader nazionali, che siano storici o mitici, vengono rappresentati ovunque come semidei, come mostrano le immagini di testata.
A seconda della natura e della posizione del territorio, si sviluppano piccole nazioni che hanno per patria comune un’oasi e una sorgente, o una vallata alpina solcata da un torrente, oppure medie nazioni che hanno per patria una ampia pianura attraversata da un grande fiume che sfocia in mare e contornata da barriere naturali facilmente difendibili, oppure grandi nazioni che hanno per patria enormi pianure o altopiani solcati da più fiumi. Le grandissime pianure sono le più esposte agli attacchi, perciò le nazioni delle grandissime pianure non soltanto debbono essere sempre pronte alla difesa, ma debbono anche controllare i popoli vicini, per impedir loro di preparare invasioni. O sono più forti dei vicini, oppure è certo che qualche vicino li invade e sottomette: si pensi alla storia dell’Europa dell’Est (per approfondire si vedano i video del dossier Storia geopolitica d’Europa).
Le piccole nazioni raramente riescono ad avere e mantenere un proprio stato autonomo, perché le nazioni vicine, se sono appena più grandi e con più risorse, le inglobano. Ma se la nazione conquistatrice ha anche una rilevante superiorità tecnologica e culturale, talora crea un grande stato multinazionale (impero o confederazione) ben regolato, in cui ogni nazione mantiene un alto livello di autonomia.
I grandi imperi di lunga durata sono i periodi d’oro della storia, periodi di pace e di prosperità interna. Dopo le conquiste, la nazione egemone stringe accordi commerciali, produttivi e culturali con tutte le altre nazioni dell’impero, governate da un’unica legge, e garantisce pace e sicurezza su tutto il territorio con il proprio esercito, in cui incorpora legioni delle nazioni conquistate e poi pacificate. Dall’Impero romano a quello islamico, dall’Impero austroungarico a quello inglese, dall’Unione sovietica alla pax americana durante la Guerra fredda, gli imperi di lunga durata hanno portato progresso e prosperità anche ai popoli sottomessi. Oggi non è politically correct dirlo, ma è così. Quando l’impero si sfalda, si ha invece un periodo di pericolosa instabilità, che spesso diventa lotta di tutti conto tutti. Lo vediamo ogni giorno chiaramente nell’instabilità continua del Medio Oriente o dei Balcani dopo il crollo dell’Impero ottomano e di quello sovietico e l’attuale rapido indebolimento dell’egemonia americana. Ma lo vediamo anche nell’irrequietezza della Catalogna, nelle difficoltà della Brexit, nella situazione ucraina, nel rafforzamento delle organizzazioni di trafficanti in droghe, armi ed esseri umani, che gli stati non riescono a fermare.
È sempre nei momenti di crisi economica e sociale, o quando si avverte una possibilità di pericolo ed è necessario ripensare il futuro e creare nuove regole, che l’insicurezza porta i gruppi umani, così come le singole persone, a ritornare alle proprie radici per attingervi forza, per identificare i sodali e i possibili rivali. Tratta questo argomento da par suo Jared Diamond, celebre autore di Armi acciaio malattie, nel suo ultimo libro Upheaval, how nations cope with crisis and change’, pubblicato in italiano con il titolo Crisi. Come rinascono le nazioni.
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