Vi proponiamo la libera traduzione delle riflessioni di George Friedman apparse su Geopolitical Futures del 27 agosto. G. Friedman non è stato soltanto un accademico, ma anche – soprattutto – consulente strategico del Pentagono e di alcuni presidenti americani, oltre che di grandi multinazionali. È un ebreo ungherese nato nel 1949 e giunto negli USA con i genitori nel 1957.
Nel mio ultimo libro “The Storm Before the Calm” ho predetto che uno dei campi di battaglia del prossimo ciclo sarebbe stato il futuro delle università. La pandemia ha grandemente accelerato gli eventi, perciò la crisi la vediamo già ora, nella sua manifestazione finanziaria. Soltanto i campus con importanti capitali di riserva possono continuare a funzionare senza gli incassi dagli studenti, perciò parte delle 5000 università americane non apriranno i battenti quest’anno e molte terranno soltanto corsi a distanza.
Ho insegnato filosofia politica per circa 20 anni, so bene che i problemi finanziari dell’Università derivano dalla visione che gli Americani hanno dell’Università. I professori sono impiegati per vari scopi. Hanno la responsabilità sia dell’insegnamento sia della ricerca, ma fanno anche parte dei comitati che gestiscono i dipartimenti. Hanno libertà accademica: dopo circa sette anni di contratti annuali diventano docenti fissi e da allora in poi non possono più essere licenziati, se non per ‘giusta causa’. Questo gli permette di sfidare il pensiero convenzionale e i principi tradizionali. Uno degli aspetti meno piacevoli della vita accademica (e della vita in generale) sono le mode periodiche del ritenere inaccettabili alcune idee. In vari periodi della storia (anche nel nostro) quelli che sostengono queste idee vengono attaccati e banditi. La libertà accademica dovrebbe costituire un baluardo contro il conformismo ideologico. Eppure non c’è luogo in cui il conformismo ideologico sia più imperante che nelle università. Chi non si conforma non ottiene mai la cattedra fissa; se già l’ha, non viene nominato nei comitati di dipartimento, né è invitato ai ricevimenti di facoltà (discutibile prerogativa dell’essere intellettualmente conformista). Questo influisce sull’insegnamento e sulla ricerca.
Quand’ero professore insegnavo da zero a nove ore per settimana, a seconda delle settimane. L’insegnamento universitario è un lavoro part time. Sì, occorre aggiungere le ore di ricevimento, il tempo dedicato alla correzione dei compiti (se non si trova un buon assistente cui farlo fare), ma il carico di lavoro di un professore per l’insegnamento è davvero lieve. È così perché i professori dovrebbero aver tempo per la ricerca, ma non c’è nessun controllo sulla ricerca. Per la mia carriera accademica scrissi due libri e una serie di articoli che per fortuna nessuno lesse mai davvero, perché erano davvero brutti. Ma mi bastarono per avere una cattedra da cui non potevo più essere cacciato, né potevo raggiungere livelli più alti.
Questo sistema si regge sui finanziamenti garantiti dal governo federale agli studenti universitari. Le università possono tenere alti i costi e fornire una varietà di servizi extra accademici, perché gli studenti li possono pagare con i prestiti federali. Potrebbero vendere parte del campus e trasferirsi in città, ma la loro strategia di marketing fallirebbe. Le università attraggono gli studenti con le tante attrattive del campus, che poco hanno a che fare col capire il significato della vita, come richiesto dalle arti liberali: la compagnia continua degli altri studenti, le bevute di gruppo, gli sport. Ogni tanto gli studenti elaborano lunghi paper mal scritti e di basso livello intellettuale, cui i professori danno voti molto alti perché a loro volta verranno valutati dagli studenti a fine anno, e a quella valutazione ogni professore ridicolmente tiene molto.
È un sistema economicamente insostenibile, ben diverso da quello europeo. In Europa l’Università è nata per insegnare la tradizione del pensiero, non per provvedere insegnamenti di utilità pratica. Questo inevitabilmente ha attirato le classi alte, che potevano permettersi anni di studio non rivolti direttamente al lavoro. È questa l’origine del sistema di pensiero delle arti liberali. La scuola manteneva viva nei secoli la tradizione della conoscenza derivata da Platone e Aristotele, anche se soltanto per una ristretta aristocrazia intellettuale. Che l’educazione superiore sia diventata una istituzione democratica accessibile a tutti è un’ottima cosa, ma è tutt’altro che certo che il diciannovenne americano medio possa o voglia capire la bellezza e la verità delle arti liberali.
Il sistema universitario è insostenibile anche intellettualmente. La sua missione originaria è preservare e trasmettere la tradizione, ma poi si è dato ben altri scopi: dall’ingegneria alla sociologia alla kinesiologia. Tutti ambiti importanti e conoscenze necessarie, ma le arti liberali si sono perse. La tecnologia è di importanza fondamentale, ma è derivata da tradizioni intellettuali che oggi pochi conoscono, eppure sono indispensabili per sapere chi siamo e quali sono i nostri doveri.
Pochi studiano le arti liberali, la maggioranza deve acquisire le specifiche conoscenze necessarie per proseguire il lavoro. La filosofia e l’ingegneria sono due ambiti radicalmente diversi. Immagino che dalla crisi attuale emergerà una università motivata non soltanto dallo sfruttamento dei prestiti per gli studenti, ma dal riconoscimento che tutti gli studenti debbono conoscere le arti liberali, ma pochi ne diventano davvero esperti. Non dobbiamo preoccuparci dell’università ma della conoscenza, non dobbiamo confondere l’insegnamento con la ricerca, tanto meno la scienza dell’allevamento dei buoi con la storia del pensiero. Le scuole di filosofia saranno modeste, piccole, con studenti quarantenni. Le scuole di allevamento bovino saranno grandi e ambiziose, piene di ventenni. Questo non avverrà per scelta politica, ma perché verranno meno i fondi che reggono il sistema attuale.
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