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Lo scorso luglio il governo cinese ha annunciato un piano triennale per il passaggio dell’educazione primaria nella Regione autonoma della Mongolia dalla lingua mongola alla lingua cinese. Si tratta della replica di quanto già imposto nel 2017 agli Uiguri e nel 2018 ai Tibetani nelle loro regioni autonome. Per il governo cinese si tratta di promuovere una maggiore integrazione della popolazione, perché possa studiare, lavorare e raggiungere alti livelli di responsabilità sull’intero territorio cinese: così vengono presentate le nuove regole. Per molti dei 6 milioni di Mongoli che popolano la Regione, invece, si tratta di una sorta di genocidio culturale. All’apertura delle scuole decine di migliaia di Mongoli hanno inscenato dimostrazioni insieme a docenti e studenti, travolgendo lo schieramento di soldati mandati davanti alle scuole a garantire l’ordine. Pechino ha raddoppiato il numero di soldati e ha arrestato centinaia di dimostranti.
Il governo cinese sta duramente rafforzando il proprio dominio su tutte le aree periferiche, non soltanto in Mongolia ma anche nello Xinjiang, dove gli Uiguri recalcitranti vengono rinchiusi in campi di ‘rieducazione’ (abitualmente usati in Cina per tutti i dissidenti ai tempi di Mao), in Tibet, a Hong Kong. Anche le rinnovate minacce contro Taiwan rientrano nello stesso programma.
Le regioni periferiche dell’interno, molto vaste ma poco abitate (Tibet, Yunnan, Xinjiang, Manchuria) proteggono il cuore del territorio cinese da invasioni via terra grazie alle loro impervie montagne e ai loro grandi deserti. Sono abitate da popolazioni non cinesi. Per garantirsi il controllo e la fedeltà di questi territori, i governi centrali hanno sempre promosso l’emigrazione dei Cinesi, perciò oggi le popolazioni originarie sono diventate o stanno diventando minoranze all’interno delle loro regioni.
Oggi nessuno minaccia invasioni della Cina dall’esterno, ma il governo, che coincide con il partito comunista unico, teme la dissidenza culturale e politica a qualunque livello e in qualunque area dello stato. A differenza delle democrazie, uno stato autoritario a partito unico come la Cina si legittima soltanto finché garantisce la crescita economica, la sicurezza e l’ordine pubblico. Disordini e dimostrazioni da parte di dissidenti portatori di visioni alternative rappresentano una minaccia alla legittimità stessa di tale tipo di stato. Se la popolazione perde fiducia nella capacità del Partito di guidare il paese verso un costante progresso, non cade soltanto il Partito, cade lo stato, cede la sua struttura, crollano le sue istituzioni. La Cina potrebbe frammentarsi, dopo un periodo di anarchia, anche senza interventi armati dall’esterno.
La forza delle democrazie sta nella separazione fra le istituzioni dello stato e i partiti. Se sanno mantenere questa separazione, gli stati democratici sopravvivono a grandi cambiamenti politici interni, sopravvivono ai disordini, alle proteste, alle recessioni economiche, a tutti i pericoli che invece possono squassare gli stati autoritari, come abbiamo visto succedere in Libia, Siria, Iraq, o come stava per succedere nella Russia post- comunista prima che Putin riuscisse ad afferrare il potere e ricostruire uno stato autoritario (che correrà il rischio di cadere al momento della sua successione).
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