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La collocazione geografica espone la regione Sahariana-Saheliana dell’Africa Occidentale a un’aridità crescente da sud a nord (desertificazione) e a una forte variabilità stagionale delle piogge: una stagione di pioggia estiva (da giugno ad agosto, periodo che si riduce a qualche settimana al nord mentre si prolunga per 4 mesi al sud) e di condizioni desertiche nel resto dell’anno, ma anche interannuale, ovvero una successione di anni umidi e asciutti secondo una ciclicità di precipitazioni piovose che deviano moltissimo in quantità e distribuzione da una media teorica di millimetri di pioggia annuali. Da ciò si ricava una condizione di stabilità dinamica dell’ecosistema capace cioè di recuperare le condizioni iniziali a seguito di un forte stress climatico. Quando l’azione umana interviene a degradare l’ecosistema la stabilità salta e questo influisce sulla mobilità migratoria.
Le transumanze degli allevatori hanno un carattere stagionale, legato alla presenza di pascoli che a loro volta dipendono dalle variazioni pluviometriche nello spazio geografico. Allevatori e pastori devono essere mobili se non vogliono praticare l’allevamento intensivo in insediamenti stanziali dove la concentrazione di popolazione umana e animale impoverisce il suolo e la falda freatica.
Le politiche di sedentarizzazione e i programmi di sviluppo dopo l’indipendenza hanno invece puntato sulla sedentarizzazione, il trivellamento del terreno per la costruzione di pozzi d’acqua e incentivato la profilassi degli animali per evitare epidemie. Queste politiche hanno rallentato e in alcuni casi impedito le transumanze transfrontaliere che permettevano il commercio di bestiame in mercati lungo gli itinerari percorsi.
Come ricorda un rapporto del CESPI (2014), il riassestamento degli equilibri della geografia umana e sociale ha accompagnato la ridefinizione dei processi produttivi, la variabilità delle condizioni climatiche e del suolo nella regione. La rigida definizione e divisione degli spazi, con la delimitazione di confini prima indefiniti, e l’adozione di un modello di agricoltura volto al mercato mondiale e imperniato sulle colture da esportazione (cotone e arachidi anzitutto) piuttosto che sulla produzione per i mercati locali e l’autosufficienza, hanno frantumato nel tempo il precario equilibrio socio-territoriale su cui si reggeva questa regione saheliana che va oltre l’Africa Occidentale e si estende lungo la fascia bioclimatica fino al Mar Rosso.
Queste politiche hanno alterato il ciclo agro-economico dei villaggi tradizionali, che assicurava una risposta al pericolo di carestia con la costituzione di riserve di miglio nei granai. I divieti e le limitazioni imposte alle migrazioni pastorali dei Tuareg, per esempio, e le politiche di sedentarizzazione forzata operate dai governi post-indipendenza, la dispersione geografica delle popolazioni nomadi, favorita dalla trivellazione di pozzi che svincolano gli insediamenti umani dal ciclo delle piogge, la pressione proveniente dal sud per l’allargamento delle colture per il mercato internazionale (conseguente alla monetarizzazione dell’economia) e l’incremento demografico delle popolazioni rurali, hanno portato all’impoverimento culturale e produttivo delle popolazioni nomadi, che hanno perso quella funzione di scambio commerciale e di perno di equilibrio tra ecosistema e sistema produttivo che era rappresentato dalla transumanza.
Così al modello di complementarità dei sistemi produttivi tradizionali tra agricoltura, pesca e allevamento del bestiame si è sostituita una conflittualità aperta tra etnie e diversi gruppi di attori economici, con un sovraccarico delle aree a pascolo e il venir meno di usi consuetudinari nella gestione delle risorse (che regolavano ad esempio il passaggio del bestiame sulle piste di transumanza). La crescita demografica, umana e animale, ha ridotto la consuetudine del maggese per la rigenerazione dei suoli e aumentato l’intensità delle coltivazioni che non ricorrono più al fertilizzante naturale rappresentato dal passaggio degli animali al pascolo dopo la stagione del raccolto.
La cattiva gestione delle risorse naturali delle politiche coloniali è continuata e peggiorata dopo le indipendenze attraverso le politiche di cooperazione e sviluppo, producendo e rafforzando le siccità nel Sahel, altra causa maggiore della migrazione verso centri urbani, e disegnando un profilo di drammatico aumento della povertà in tutta l’Africa Occidentale. Desertificazione da sovracoltivazione sui terreni migliori al sud e sovrapascolamento al nord, dove la capacità di carico dei terreni è stata abbondantemente superata dalla presenza di sempre più numerosi capi su aree sempre più piccole, hanno impedito la rigenerazione della biomassa, hanno polverizzato e impermeabilizzato il suolo. Infine, hanno sottratto le graminacee alla dieta degli allevatori.
Infine, il taglio del legname per uso domestico di combustibile e di materiale da costruzione, praticato sempre più intensamente in presenza della crescente pressione demografica ed in assenza di combustibili alternativi, ha aggravato ulteriormente la crisi ambientale nell’area.
Oggi l’Africa occidentale comprende 15 paesi in cui vivono quasi 340 milioni di abitanti su una superficie di poco più di 6 milioni di km2, cioè più di 4 volte la popolazione italiana su un territorio che è circa 20 volte quello dell'Italia e pari a un quinto della superficie del continente africano. La Nigeria è il paese più densamente popolato dell’Africa dove si concentra oltre il 52% della popolazione della regione. Circa un africano su sei è nigeriano.
Oltre alla religione musulmana, un tratto unificante dell’Africa occidentale è la sua popolazione molto giovane: in tutti i paesi la popolazione con meno di 15 anni rappresenta tra il 40% (Mauritania) e il 50% (Niger) della popolazione totale, mentre quella con più di 65 anni rappresenta tra il 2,4% (BurkinaFaso) e il 3,5% (Ghana). Secondo alcune previsioni, l’Africa occidentale raggiungerà i 500 milioni nel 2029.
Contemporaneamente, un effetto che retroagisce nel sentiero di non sviluppo in Africa Occidentale è rappresentato dalla trasformazione della struttura demografica della popolazione rurale, costituita da bambini, donne e anziani, in seguito all’emigrazione degli uomini in età lavorativa.
In questo contesto si ripetono con frequenza gli episodi di insicurezza alimentare acuta con gravi perdite di vite umane e di bestiame. Il mancato accesso alle risorse alimentari è il sintomo dell’elevato rischio di vulnerabilità cui è esposta la maggioranza della popolazione e causa di migrazioni verso i centri urbani e altri paesi africani.
In termini di Indice composito di Sviluppo Umano (ISU), tutti i paesi della regione, ad eccezione del Ghana (unico paese che supera la soglia di 0,471), sono a basso livello di sviluppo umano, con una speranza di vita alla nascita che non raggiunge mai i 60 anni d'età (e in Sierra Leone raggiunge il livello più basso al mondo, 48 anni). Il Niger è in fondo alla classifica, eppure è lo stato più ricco di uranio, ed è diventato uno snodo migratorio di rilievo dove transitano migranti provenienti anche dall’Africa Orientale (Chad, Etiopia, Somalia).
La povertà e le disuguaglianze penalizzano soprattutto le popolazioni che vivono in aree rurali. La situazione è particolarmente grave se si pensa che su quattro bambini malnutriti che vivono in Africa ben tre risiedono in Africa Occidentale o in Africa Orientale, le due regioni saheliane in cui si registra il più alto tasso di crescita demografica e dove sono concentrati un gran numero di rifugiati.
L’elevata crescita demografica riduce la disponibilità di cibo pro capite, l'aumento del reddito sposta la domanda verso cibi trasformati e industriali (carne e pesce), il che sottopone i sistemi alimentari locali a una forte pressione. Anche la forte dipendenza strutturale dalle importazioni alimentari, come nel caso del riso importato dall’Asia quando potrebbe essere prodotto localmente, penalizza lo sviluppo dell’autosufficienza alimentare. Questo determina un’elevata vulnerabilità agli effetti della volatilità dei prezzi internazionali che, nel caso del riso, si traducono quasi integralmente in aumento dei prezzi interni. Senza migrazioni stagionali interne che alternano lavori di raccolta e semina, pastorizia e pesca con lavori occasionali nelle città, nessuna famiglia riesce a sopravvivere non solo ai periodi di siccità e carestie ma anche alle guerre. Il crescente tasso di urbanizzazione è sinonimo di aumento dell’economia informale e dei traffici illeciti come il contrabbando di carburante, tabacco, armi e droga. Nel caso del Mali, terzo produttore di oro al mondo, questa situazione ha distrutto il paese e ridotto gran parte della popolazione sotto la soglia della povertà, anche per l’incapacità e la corruzione dei governi. Questo spiega perché la migrazione è diventata una strategia di sopravvivenza sempre più urgente anche per il cambiamento climatico, la desertificazione e la guerra.
Aggrava la situazione in Mali anche l’accaparramento delle terre da parte di attori economici internazionali tra i quali Stati Uniti, Arabia Saudita, Libia, Cina e India, attraverso l’acquisizione di concessioni governative che comportano la sottrazione di parcelle di terra da parte dello stato alle famiglie, in zone rurali dove la sussistenza economica richiede un mix di agricoltura e allevamento di bestiame. In Mali l'agricoltura di sussistenza occupa la maggioranza della popolazione, dedita alla produzione di cereali (miglio, sorgo e mais) a fianco delle principali colture commerciali (cotone e arachidi). L’allevamento di bestiame invece contribuisce al 19% del prodotto interno lordo del paese.
Infine, la dipendenza dalle importazioni alimentari, soggette a forti oscillazioni di prezzo, e gli aiuti internazionali hanno sinora giustificato il ricorso a sussidi alla produzione di grano, tenuto conto del fatto che il conflitto nel nord del Mali aveva interrotto la circolazione dei prodotti alimentari e provocato un grosso numero di sfollati e rifugiati, facendo peggiorare la già precaria situazione alimentare creata dalla grave siccità del 2011 nel nord del paese.
Negli ultimi dieci anni la guerra in Mali e in tutta la fascia saheliana dell’Africa ha causato centinaia di migliaia di profughi che sono obbligati a dipendere dagli aiuti umanitari nei campi profughi oppure accettare l’imposizione di gruppi terroristi, oppure fuggire e spostarsi in altri paesi africani e in Europa.
Per contenere i flussi migratori l’Europa ha stipulato accordi con i paesi del Maghreb per fermare i migranti in centri di detenzione. Da questi centri partono le reti di traffico umano attraverso il Mediterraneo che poi si riversano in Italia. Quali altre strategie possiamo escogitare affinché questa regione possa sviluppare un’economia di autosufficienza e indipendenza dagli aiuti internazionali?
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