Hilal Khashan commenta per Geopolitical Futures la recente vittoria elettorale di Bashar Assad in Siria, che ha avuto il 95% dei consensi nonostante la disastrosa situazione in cui versa oggi il paese, dopo una lunga guerra civile che ha causato mezzo milione di morti e la distruzione di intere città, con il 60% della popolazione ancora rifugiata in campi profughi.
Non è una situazione anomala nelle repubbliche del mondo arabo, dove non è mai mancato il sostegno elettorale per i presidenti che avevano trascinato i loro paesi in guerre perse, come Nasser in Egitto, o che avevano perpetuato per decenni condizioni di grande povertà. Secondo Khashan i popoli arabi sono condizionati da una lunghissima tradizione di reverenza per il potere, che è sempre considerato legittimo, indipendentemente dai mezzi con cui è stato ottenuto e dal modo in cui viene gestito.
La lealtà incondizionata al capo è considerata nella cultura araba la migliore difesa contro i rivali esterni. L’obbedienza al capo è dovere virtuoso, il pensiero critico personale è considerato un pericolo per l’intero gruppo. L’amministrazione della giustizia e la difesa della fede sono responsabilità del capo, non della società nel suo complesso, che ha soltanto il dovere di esprimere la propria opinione se viene richiesta (e il capo la richiede sempre, se è saggio, anche attraverso le elezioni), ma poi deve comunque obbedire alle decisioni del capo, perché soltanto così il gruppo difende la propria sopravvivenza. L’Islam condanna ogni forma di ribellione al potere, anche se quel potere è ingiusto, perché l’obbedienza a un capo ingiusto è comunque meglio di un conflitto civile.
Nella tradizione ogni capo arabo si dà un appellativo che ne sottolinea il diritto al potere: Abd al-Karim Qasim, che rovesciò la monarchia in Siria nel 1958, si proclamò ‘ leader unico’; Hafez Assad, che governò la Siria dal 1971 fino alla morte, era chiamato ‘capo per sempre’, Gamal Abdel Nasser in Egitto è ancora chiamato ‘il leader eterno’, anche se è morto da mezzo secolo. Habib Bourguiba di Tunisia era chiamato ‘il grande guerriero’, Anwar Sadat in Egitto ‘il presidente fedele’, perché ravvivò il ruolo della religione nella gestione del potere. Dopo la guerra del 1973 contro Israele assunse il nuovo titolo di ‘eroe della guerra e della pace’. Il presidente libanese Michel Aoun si è autoproclamato ‘padre del popolo’, un popolo che da decenni cade e ricade nella guerra civile.
Tutti i capi autoritari arabi conquistarono il potere tramite qualche colpo di stato ma tutti si legittimarono con elezioni che diedero loro sempre più del 90% dei voti favorevoli. Sono risultati elettorali raggiunti un po’ per il conformismo degli elettori, un po’ con evidentissimi imbrogli elettorali, ma l’importante è che si arrivi in qualche modo all’investitura ufficiale del leader, il quale potrà poi contare per decenni su una diffusa e spontanea obbedienza popolare.
I capi arabi sostengono il proprio inalienabile diritto al potere anche attribuendo i fallimenti della propria leadership a complotti e congiure dall’esterno. In Egitto l’hanno fatto sempre tutti, da Nasser in passato ad al-Sisi oggi. Anche Bashar Assad dà la colpa della rivoluzione e della guerra civile in Siria a una ‘congiura cosmica’ orchestrata dall’Occidente e dalle monarchie del Golfo.
I potenziali rivali del capo in carica vengono abitualmente eliminati tramite imprigionamento, cacciata in esilio o addirittura assassinio. Chi osa candidarsi alle elezioni come capo di un partito davvero rivale finisce subito in cella o è vittima di assassinio. Imprigionare o assassinare il rivale a dire il vero è tipico di tutti i capi autoritari e dittatoriali, non soltanto nel mondo arabo. Ma in Occidente un capo autoritario la cui politica danneggia il paese perde credibilità e legittimità appena i danni diventano evidenti; la perde subito del tutto se avvia una guerra e la perde.
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