George Friedman pubblica su Geopolitical futures del 23 luglio un bell’articolo dal titolo ‘The geopolitics of heartbreak’, (La geopolitica del crepacuore) che riflette sul ritiro dall’Afghanistan, così come in passato dall’Iraq e dal Vietnam. Eccone una sommaria traduzione.
Ci sono sempre quelli che credono che la guerra sia necessaria. A combatterla non sono loro, sono persone nella merda, che vivono nel fango e nel tanfo dei campi di battaglia, alimentato da corpi sporchi e munizioni esplose. Più tardi i soldati parleranno di dovere e di onore, e saranno sinceri, ma mentre sono nella merda pensano soltanto all’efficienza della loro arma, alla probabilità di un pasto caldo, alla profonda paura della morte e a quella, ancora più spaventosa, che è la paura della propria paura.
La vita dei soldati al fronte è colma dello strano amore per quelli che un tempo si chiamavano fratelli in armi; se c’è onore nel combattere, consiste nel rispetto delle persone cui si vuol bene e nella necessità di non pensarci e di non esprimersi. I compagni di combattimento dividono tutto con un’intimità superiore anche a quella del più solido dei matrimoni. Tutto è condiviso: dall’ultimo sorso d’acqua all’ultima goccia di sangue. Se un compagno muore, al dolore si aggiunge la vergogna. La vergogna nasce dalla sensazione di non aver fatto tutto quello che forse si poteva fare, di non esser stati abbastanza previdenti. La morte capita in guerra: un proiettile colpisce, qualcuno muore. Ma il cuore del soldato rifiuta l’idea che sia un puro incidente. Se lo fosse, non avrebbe significato. C’è bisogno di credere che la morte può essere evitata dall’attenzione e dalla preparazione. Non è così, ma il soldato si sente responsabile della morte del suo commilitone. Ora lo chiamano stress post traumatico, ma il nome giusto per questo tipo di sofferenza è crepacuore, un crepacuore tanto più devastante in quanto non c’è tempo per il lutto in battaglia e gli altri non vogliono saperne del tuo lutto dopo il ritorno alla vita civile. I combattenti sono costretti a una vita di responsabilità per la vita delle persone che amano e di vergogna per la loro morte.
Le guerre sono pianificate in lontani quartier generali, spesso con spaventosa noncuranza. Chi fa il piano non conosce il nemico né il terreno. Non ne conosce gli odori, non sa i nomi dei soldati che muoiono. Non può essere altrimenti. Presidenti e generali non possono permettersi di provare amore per gli uomini che mandano in guerra, debbono trattarli in modo impersonale, come cifre in un bilancio in cui si elencano e calcolano le artiglierie, le incursioni e i dati di intelligence. Molto in quel bilancio è sbagliato: la guerra è lontana, i soldati che conoscono la realtà sono troppo occupati a difendere la propria unità. La guerra è la sfera dell’incertezza, ed è tanto più incerta quanto più lontani si è dal campo di battaglia. Gli esperti percepiscono il pericolo in base a presentazioni elaborate a tavolino e mostrate a video, i soldati lo vedono in agguato dietro gli alberi che li circondano.
La realtà della guerra in Afghanistan è chiara: al-Qaeda pianificò l’attacco agli USA dall’Afghanistan, perciò l’Afghanistan doveva essere attaccato per distruggere al-Qaeda. Quando si vide che non era possibile, spuntò un nuovo obiettivo: pacificare l’Afghanistan e ripulirlo dagli estremisti, perché non dessero più asilo a islamisti radicali che potessero nuocere agli USA. Obiettivo impeccabile, se fosse stato realistico. L’Islam radicale è la religione dominante in Afghanistan, non è possibile ripulirlo. Per secoli ci provarono senza riuscirci i Russi, gli Inglesi e tanti altri. Come pensavano di riuscirci gli USA? I pianificatori forse puntavano sulla potenza aerea o sull’intelligence, o nutrivano qualche altra illusione. Seduti a tavoli ben puliti, davanti a pasti serviti in piatti di porcellana e senza versare una lacrima, i pianificatori militari sostituirono un obiettivo fallito con un altro impossibile e destinato al fallimento. Poi rifiutarono a lungo di ammettere ciò che ormai era ovvio. Si trovavano sempre buoni motivi per rimanere in Afghanistan: dimostrare al mondo arabo che gli USA avrebbero punito duramente chi osasse attaccarli, convincere gli alleati che gli USA non si sarebbero tirati indietro, e così via. La guerra continuò soltanto perché era più facile continuarla che finirla. Per un’intera generazione i soldati americani furono mandati nella merda con il dubbio coraggio dell’incertezza che accoglie le reclute sul campo di battaglia, fin dentro al dolore che la battaglia significa. I soldati conoscono subito il forte desiderio di scappare, ma non l’ammettono mai ai commilitoni da cui ognuno sente di dipendere e che finiscono con l’amare di quell’amore strano e contorto che i soldati conoscono dai tempi delle battaglie di Troia e di Gerico.
Alla fine la realtà vince e giunge l’ora di tornare a casa. Allora i soldati sul teatro di guerra capiscono e ricordano, e la consapevolezza delle perdite li fa stramazzare. Non soltanto la perdita di quelli che sono morti, ma anche della loro gioventù. Rimane una dura rabbia e l’impossibilità di vivere come gli altri.
Era necessario ritirarsi dall’Afghanistan. Pensare ai tanti Afghani morti, innocenti o in difesa di una loro causa, una necessità. Un pensiero deve anche essere esteso a chi pianificò la guerra senza immaginare che sarebbe finita così. Ma da quando è iniziato il ritiro il mio pensiero va a quei soldati che hanno continuato a combattere in Afghanistan ben oltre la ragionevole speranza di raggiungere l’obiettivo. È un’altra guerra persa perché già all’inizio non c’era nessun modo di vincerla. Non piangiamo sul fallimento geopolitico della missione, piangiamo su quello che la geopolitica ha fatto ai cuori dei combattenti. Ora sono costretti a convivere non soltanto con il senso di fallimento, reale o imaginario, ma con la coscienza che è stato tutto per niente. Il crepacuore del soldato deriva meno dalla guerra che da una pace che gli dà la consapevolezza dell’indifferenza con cui sono stati usati e buttati via il coraggio, la fratellanza, la sofferenza. Combattere e poi sentirsi dire che la sconfitta non ha nessuna importanza, tanto non cambia niente − questo è il vero crepacuore. Li potrà salvare soltanto l’amore, ma è molto difficile amare chi non ha più cuore, perché si è rotto.
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