Con questo titolo George Friedman (Geopolitical Futures del 24 settembre) descrive una vistosa caratteristica dell’economia di produzione industriale di massa negli ultimi 150 anni, rappresentata dall’apparire periodico sul mercato globale di un paese capace, per la natura del suo territorio, della sua società e della tecnologia disponibile, di diventare il super-produttore globale di beni di massa con un rapporto prezzo/qualità imbattibile. Questo paese entra in grave crisi quando entrano in crisi i suoi clienti, cioè gli altri paesi del mondo, ed è costretto alla difficile opera di conversione a un altro modello di sviluppo, che lo porta a entrare nei ranghi dei paesi pienamente sviluppati con PIL pro capite molto alto, perciò non più molto competitivi.
Si tratta di cicli che durano più o meno cinquant’anni, dall’inizio della crescita alla crisi e alla successiva ripresa. Il tallone di Achille dei grandi esportatori è che dipendono dalla possibilità e dalla volontà degli importatori a continuare a comperare. Quando una crisi finanziaria o politica riduce velocemente le possibilità di importazione dei clienti, l’esportatore ne subisce un forte contraccolpo ed è costretto a rivedere tutta la sua struttura economica, con ripercussioni importanti sulla struttura sociale.
Il primo gigante dell’esportazione di beni industriali di massa furono gli Stati Uniti, che una decina d’anni dopo la Guerra civile avviarono una grande rivoluzione industriale, basata sulla produzione di beni a basso costo per l’esportazione in quei paesi europei che invece concentravano le loro produzioni su beni che avevano un margine di utile più alto. Nel 1900 circa metà di tutti i prodotti del mondo erano made in the USA. Gli USA accumularono così enormi capitali. Ma la Prima guerra mondiale e la successiva crisi finanziaria ed economica globale misero in crisi anche il modello americano. La ristrutturazione dell’economia durante la Grande depressione degli anni ’20 portò a un modello di produzione più complesso e con basi più solide, che espresse il massimo della sua potenza durante la Seconda guerra mondiale. Alla fine della Seconda guerra mondiale gli USA erano ormai la prima potenza economica e politica al mondo e divennero paese importatore di beni di massa dalle economie allora in fase di sviluppo, dopo le rovine della guerra. Dopo circa cinquant’anni la crescita americana basata sulla produzione per l’esportazione era ormai sostituita da un modello di crescita basato sull’innovazione continua, sull’arricchimento del mercato interno e sull’egemonia finanziaria.
Nel ruolo di produttore di massa subentrò il Giappone, a partire dagli anni ’50. Iniziò col produrre beni per l’esercito USA durante la Guerra di Corea, soprattutto autocarri, fatti in una piccola azienda locale di nome Toyota, su licenza americana. Sappiamo come andò a finire: negli anni ’80 l’ottimo rapporto prezzo-qualità delle produzioni giapponesi portò al fallimento i produttori di autocarri, automobili e motociclette nel resto del mondo. Gli USA alzarono tariffe protettive e usarono strumenti monetari e finanziari per contrastare l’avanzata dei motori giapponesi e negli anni ’90 l’economia giapponese entrò in una crisi profonda, che l’obbligò a ristrutturarsi, mentre la Cina diventava il nuovo esportatore di massa sul mercato globale.
Il ciclo di sviluppo della Cina come produttore di beni di massa a basso costo è iniziato dopo la morte di Mao, che con la sua Rivoluzione culturale aveva portato l’economia (e la cultura) cinese al quasi totale collasso. Erano i tardi anni ’70. La crisi finanziaria ed economica dal 2008-12 portò quasi all’arresto degli investimenti esteri in Cina e a una grave contrazione delle sue esportazioni. Il governo cinese iniziò a ripensare il modello di sviluppo, altrettanto fecero le economie occidentali. Il lancio del programma cinese One belt One road (o Nuova via della seta) fu la prima dichiarazione ufficiale di come la Cina intende cambiare la sua politica. I cambiamenti sono in pieno corso oggi in modo chiarissimo. Nei prossimi cinque-sei anni l’economia cinese dovrà rendersi indipendente dall’esportazione di prodotti di massa a basso prezzo, completando il proprio ciclo di circa cinquant’anni. A chi toccherà poi? All’India? Fra due o tre anni lo sapremo.
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