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È ormai chiaro che le migrazioni sono diventate un fenomeno di massa irrefrenabile, che dobbiamo saper gestire in base ai nostri interessi e alle nostre priorità, anziché subire passivamente l’iniziativa altrui. Dobbiamo cioè darci una politica per l’immigrazione, che per essere efficace e flessibile non può che essere definita a livello europeo, altrimenti si moltiplicheranno tensioni che rischiano di spaccare l’Unione, come avviene in questi giorni davanti alla pressione dei migranti organizzata dalla Bielorussia alla frontiera polacco-lituana.
È interessante vedere come gestisce la politica dei migranti la Russia, favorita in questo dall’essere un paese molto esteso ma con poca popolazione e poca mano d’opera, nonché dall’eredità politica e culturale dell’Unione Sovietica, che tendeva a russificare i paesi satelliti sia attraverso la migrazione massiccia dei Russi in altre terre, sia attraverso l’immigrazione in Russia da altre terre.
La politica migratoria russa nei confronti dei paesi dell’Asia centrale segue la stessa logica dell’Unione economica euroasiatica, che ha due obiettivi:
- creare non soltanto un unico mercato ma anche una unica area geopolitica fra la Russia e i paesi ai suoi confini, per motivi di sicurezza,
- legare questa area geopolitica a tutto il resto dell’Asia tramite scambi economici.
Fra i paesi in attesa di entrare nell’Unione e quelli con cui è già stato stipulato un accordo di libero scambio, all’Unione Euroasiatica sono economicamente cointeressati anche Uzbekistan, Tagikistan, Cina, Mongolia, Vietnam, Iran, Singapore e Siria.
Ai fini della sicurezza geopolitica è necessario un processo di parziale russificazione culturale delle popolazioni dei paesi confinanti, cioè è necessario utilizzare il soft power, offrendo occasioni sia di studio sia di lavoro in Russia, oltre a investire nelle loro infrastrutture e sviluppare gli scambi. In Kazakistan, ad esempio, che è un paese di soli 18 milioni di abitanti, la Russia ha contribuito al PIL con scambi di 20 miliardi di dollari nel 2021, anno di grande crisi causata dall’epidemia, cioè con più di 1000 dollari per abitante.
Proprio la pandemia ha visto la chiusura di molte attività economiche e milioni di lavoratori sono ora disoccupati in Asia centrale. Nel 2019 c’erano in Russia circa 11 milioni di lavoratori immigrati dall’Asia centrale, le cui rimesse in patria contribuivano in modo importante al benessere delle famiglie lontane. Si tratta di manodopera impiegata in attività manuali che i Russi spesso rifiutano, soprattutto in agricoltura e nella raccolta dei rifiuti. Nel 2020 sono scesi a 6 milioni, ma ora la Russia ha semplificato al massimo le procedure per farli tornare e ha aperto centri pre-emigrazione nei paesi dell’Unione Euro-asiatica per raccogliere e vagliare le candidature dei potenziali migranti. A chi viene accettato, questi centri organizzano il contratto di lavoro ed il contratto per la casa, prima ancora che il migrante parta per la Russia. Nel 2021 sono già entrati in Russia 3 milioni di lavoratori uzbechi, 1,6 milioni di lavoratori tagiki e 600000 lavoratori kirghisi.
Nel frattempo la Russia sta anche mettendo in opera sistemi di protezione degli operai russi dalla concorrenza degli immigrati, ad esempio riservando loro in modo esclusivo alcuni settori, in primis quello dell’edilizia. Questo per evitare lo sviluppo di possibili ostilità di massa fra lavoratori russi e lavoratori immigrati.
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