Come molti altri, nei due anni di clausura per pandemia ho scritto le me memorie, poi le ho messe in un cassetto per tornare a pensare al presente. Ora che appaiono evidenti i danni della troppo repentina globalizzazione forzosa voluta dall’Occidente dal 1992 in poi, vado a ripescare quanto ho pensato a inizio del 2000 e scritto nel 2021 su questo argomento. Nel 2000 ero ancora una imprenditrice che lavorava immersa nella realtà cinese fin dal 1972.
È un capitoletto ad hoc. Eccolo.
Il mondo dà di matto? L’assurda politica con la Cina
Nel 2001 l’Unione Europea decise che allo scadere dei successivi 36 mesi avrebbe liberalizzato tutto d’un colpo le importazioni dalla Cina: abolite le licenze e le quote, i dazi extra. I politici ed economisti di professione − cioè puramente teorici − decisero di trattare la Cina come un qualunque medio paese a economia di libero mercato, dopo 50 anni di chiusura quasi totale. Che si trattasse della più solida, più antica e demograficamente più estesa civiltà del mondo − e che la sua struttura sociale e politica non avesse neppure l’apparenza di libero mercato − fu un dettaglio su cui si preferì non discutere. Tecnicamente fu deciso che con qualche riforma cosmetica superficiale la Cina avesse tutti i requisiti per entrare nel WTO benché ancora oggi, venti anni dopo, materie prime ed energia siano monopoli di stato, i tassi di cambio siano fissati centralmente, la maggior parte dell’industria pesante sia pubblica, il credito sia gestito dallo stato con criteri politici. Peccato sfuggisse il dettaglio che si trattava di un paese di un miliardo e mezzo di persone laboriose, abili, povere, orgogliose, disciplinate, abituate a lavorare 60 ore la settimana senza proteste e senza organizzazione sindacale. La nostra industria avrebbe dovuto competere tutto d’un tratto con i Cinesi? Ma capivano costoro che cosa facevano? Non eravamo riusciti a competere con successo neppure con le produzioni dell’Europa dell’est, entrate nel sistema economico occidentale dieci anni prima! Era ovvio che nell’arco di pochi anni le nostre industrie avrebbero chiuso o si sarebbero trasferite, i nostri gloriosi distretti artigiani avrebbero chiuso, le straordinarie capacità artigiane d’Italia si sarebbero perse. Se lo vedevo e lo capivo io, perché non lo vedevano e non lo capivano politici ed economisti, perché non lo capiva la Commissione Europea?
Partecipai a un seminario dello Studio Ambrosetti, andai una volta a Cernobbio: grandi manager, grandi economisti, compiaciuti discorsi privi di qualunque concretezza. L’unica cosa evidente era che tutti consideravano ‘superato’ il lavoro e la produzione, perché il futuro dei paesi evoluti sarebbe stato nella finanza. Noi avremmo ricevuto denaro da investire da ogni parte del mondo, saremmo stati i master investitori, avremmo fatto rendere i capitali nostri e altrui e tramite la finanza saremmo stati i padroni del mondo! Ma siccome noi siamo i buoni, l’avremmo gestito bene questo mondo, avremmo fatto crescere il benessere di tutti i paesi poveri, in primis quello della Cina… rimandandogli sotto forma di investimenti il denaro che la Cina ci avrebbe mandato da gestire! Proprio come mi avevano chiesto di fare i Cinesi per effettuare la finta privatizzazione delle fabbriche senza cambiarne in nulla né la proprietà effettiva né i poteri di gestione − pensai. Le fabbriche mi avevano restituito il denaro a rate, con sconti sulla produzione. Ovviamente era stato un puro scambio di denaro, io non avevo guadagnato nulla né avevano guadagnato nulla loro. Gli avevo fatto un favore come prestanome. Adesso Americani ed Europei facevano un favore analogo alla Cina nel suo insieme, facevano i prestanome per far finta che la Cina avesse una economia di mercato, ma parevano convinti di star compiendo operazioni di economia reale, che avrebbero accresciuto benessere e sviluppo a casa nostra. Perché? Che cosa pensavano di ottenere? Pensavano forse di riuscire davvero a controllare l’economia cinese dall’interno tramite la finanza − e con mezzi finanziari prestati dalla Cina stessa?
Mi sembravano tutti matti, privi del senso della realtà. Mi è sempre stato chiaro che il potere economico è di chi sa fare, sa decidere e agire, creare organizzazioni – la finanza è un servizio. E più il denaro è abbondante e più circola, meno importanti diventano i servizi finanziari ai fini dell’economia reale, meno potere reale ha il capitale. USA ed Europa pensavano di poter guidare il resto del mondo mettendosi al suo servizio nella gestione della finanza? No, c’era anche la tecnologia, c’erano i brevetti: ma che senso aveva mettere subito a disposizione dei Cinesi i nuovi brevetti, l’high tech più innovativo, affidandone a loro la produzione, anziché produrre in casa? In cambio di bassi costi di produzione si regalava la conoscenza più avanzata ai concorrenti? O erano tutti stupidi, o io non capivo qualchecosa che entrava necessariamente nell’equazione ma mi sfuggiva. Doveva essere qualchecosa di grosso e di fondamentale, però. Mah − pensai − la realtà degli anni successivi mi avrebbe mostrato l’errore, il buco nella conoscenza o comprensione della realtà. Sarei stata ben attenta a capirlo. La mia vita personale era ammaccata e dolente, ma l’interesse di stare a vedere come sarebbe andata a finire e che cosa non avevo capito dell’economia internazionale – pur essendone un attore di lunga esperienza − era un altro motivo per continuare a interessarmi alla vita. Purtroppo la crisi finanziaria ed economica degli anni 2008-2012 dimostrò che a non capire i rapporti di forza nell’economia reale erano stati gli economisti e i politici. Avevo ragione io, ma in questo caso aver ragione fu cosa davvero triste.
Laura Camis de Fonseca
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