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È ormai chiaro che l’ordine globale che davamo per scontato si va sgretolando, che occorre svilupparne un altro, ma mentre l’ordine futuro si delinea e si consolida è urgente mettere subito in sicurezza territorio, salute pubblica, frontiere e prospettive di sviluppo. Confidiamo che le istituzioni democratiche che ci siamo dati ci permetteranno di definire rapidamente principi e strategie e avviarne l’attuazione, ma l’ansia di non riuscirci è diffusa e palpabile.
Quali sono le urgenze e le difficoltà maggiori per noi italiani, all’interno delle sfide che coinvolgono l’intera Europa, anzi l’intera civiltà occidentale? Dobbiamo ridurre le nostre eccessive dipendenze dall’estero in campi di importanza vitale come l’energia e le tecnologie applicate alla produzione, alla medicina, ai trasporti. Dobbiamo migliorare e modernizzare le infrastrutture di base: trasporti per terra e per mare, risorse idriche, aeroporti. Dobbiamo riorganizzare e semplificare la terrificante burocrazia che ci soffoca con la sua lentezza e la sua inefficienza (oltre che con il suo costo), compromettendo l’efficacia della sanità, della scuola, della ricerca, dello sviluppo imprenditoriale.
Insieme agli altri paesi europei dobbiamo riuscire a darci una dottrina per mettere in sicurezza i confini da qualunque attacco esterno. Dobbiamo rivedere gli accordi commerciali e produttivi con gli altri continenti. Dobbiamo pensare e attuare gli investimenti per adattare sia il territorio sia le produzioni ai cambiamenti climatici.
Ma rispetto ad altri paesi europei abbiamo una grossa difficoltà in più, che è rappresentata dall’eccessivo debito pubblico (nel 2022 abbiamo già superato il 150% del PIL), oltre che dalla denatalità (per cui dobbiamo naturalizzare e ‘italianizzare’ gli immigrati, operazione non facile dal punto di vista sociale). Il debito pubblico prima o poi viene pagato dei cittadini stessi con tasse eccessive, o con l’inflazione, o con il blocco dello sviluppo per carenza di investimenti. Spesso a pagare il debito sono le generazioni successive a quella che ha contratto i debiti, ma qualcuno prima o poi i debiti li paga, direttamente o indirettamente.
Come siamo arrivati a un debito pubblico di tali proporzioni? È bene ricordarlo, per evitare di cadere di nuovo negli stessi errori.
Il ‘miracolo economico italiano’ (come lo definivano i giornali di tutto il mondo) ci aveva portati alla fine degli anni ’60 ai massimi livelli di sviluppo e di produttività. Poi iniziò il terrorismo. Le Brigate rosse spaventarono la classe politica, attaccandola al cuore con il sequestro Moro. Attaccarono la magistratura con rapimenti e assassinii. Le criminalità organizzata approfittò dello sconcerto e della distrazione della polizia nel periodo di concentrazione di tutte le forze in attività di controterrorismo, si rafforzò e avviò una stagione di sequestri a scopo di ricatto che spaventarono e destabilizzarono gli imprenditori. La mafia rialzò la testa in tutti i settori, giunse a insidiare il cuore dello stato. Ci sarebbero voluti gli assassinii di Falcone e Borsellino perché gli Italiani ricominciassero a cacciarla ai margini.
In questa pericolosissima situazione la classe politica decise di ottenere e mantenere la pace sociale distribuendo denaro a pioggia, concedendo aumenti di stipendio a tutti, moltiplicando i posti negli apparati pubblici, concedendo pensioni a chiunque le chiedesse. Agli imprenditori venne detto: acconsentite alle richieste sindacali, concedete tutto, lo stato vi sovvenzionerà e vi proteggerà. Nell’arco di poco più di un lustro la pace sociale fu raggiunta, gli attentati terroristici cessarono. Nel 1985 il debito pubblico gonfiava a ritmi impressionanti, la lira si deprezzava velocemente, ma il terrorismo non faceva più paura. Le industrie italiane avevano cessato gli investimenti in nuove tecnologie produttive, gli imprenditori non erano più attenti a essere competitivi a livello globale, ma erano sempre più speculatori e interlocutori privilegiati del mondo politico che garantiva loro prestiti, sovvenzioni, tutele di ogni genere. I politici pensavano che si sarebbe trovato il modo per riavviare un giorno o l’altro qualche forma di nuovo miracolo economico, nel frattempo si godevano la tranquillità e ci invitavano tutti alla bella vita.
Quando cadde il comunismo in Unione Sovietica molti pensarono che fosse la grande occasione per espandere di nuovo l’economia italiana, aprendo nuovi mercati. La creazione dell’Unione Europa nel 1992 ci fece sognare un futuro radioso. Invece l’integrazione europea nell’arco di pochi anni portò alla delocalizzazione delle manifatture italiane nell’Europa dell’est. In Italia le fabbriche chiudevano, la produzione veniva trasferita nei paesi europei in cui la mano d’opera costava la metà, le norme di sicurezze e la sorveglianza burocratica erano quasi inesistenti. Gli utili rimanevano in mani italiane, ma l’occupazione in Italia scemava, gli investimenti non si facevano più. L’aggiornamento tecnologico passò in secondo piano e perdemmo tutta l’ondata di impetuoso sviluppo legato alle tecnologie digitali negli anni ‘90, perché anche in campo tecnologico ci eravamo fermati.
Venne poi il progetto di unione monetaria, e tutti pensammo che se fossimo riusciti a entrare nel sistema dell’Euro saremmo stati salvi: il debito pubblico di ogni stato sarebbe divenuto parte del debito pubblico comune di tutti gli stati europei, il nostro debito pubblico alla fine l’avrebbero pagato soprattutto i Tedeschi! Questo per lo meno era quanto si pensava e si diceva in Italia e in Grecia. Quando nel 1999 il nostro prof. Prodi venne nominato presidente della Commissione Europea capimmo che ce l’avremmo fatta, che con l’adozione dell’Euro e con l’apertura globale dei mercati garantita dal WTO eravamo ormai salvi, facevamo parte di una grande e forte famiglia di stati europei, i nostri debiti erano debiti europei, non più italiani.
Invece la realtà si dimostrò ben diversa: la Germania e gli altri paesi europei non avevano nessuna intenzione di accollarsi il nostro debito pubblico, o quello della Grecia. Alla fine una mano ce la diedero (grazie a Draghi), ma la pagammo ben cara. Dovemmo bloccare gli investimenti, dovemmo accettare controlli sulla nostra spesa pubblica per ricevere l’aiuto indispensabile per continuare ad avere il denaro per pagare le pensioni e gli stipendi del settore pubblico. Il sistema produttivo italiano continuò a indebolirsi, le infrastrutture non vennero più rinnovate, persino la manutenzione ordinaria divenne carente. Dovemmo anche accettare senza discussioni che la politica industriale, commerciale ed energetica dell’Unione Europea, soprattutto verso la Russia e la Cina, fosse quella che conveniva alla Germania, grati che l’industria tedesca subappaltasse ancora produzioni industriali ad alcune fabbriche del Nord Italia. La Germania di Angela Merkel divenne egemone nell’economia e nella politica europea. I commentatori americani dicevano che la Merkel era riuscita con un agire da abile e umile massaia a creare quell’impero germanico che Metternich e Hitler avevano tentato invano di creare con la guerra.
Poi venne la Brexit (l’Inghilterra non poteva accettare di rimanere in un’Europa che stava diventando un nuovo impero germanico), lo shock della pandemia, infine l’aggressione della Russia all’Ucraina, cioè all’Europa. Il castello della Merkel sta crollando. La Germania che pensava di diventare impero economico senza assumersi responsabilità politiche e militari, rimanendo in pace con tutti, ha visto la sua miope strategia andare in frantumi e ora deve ripensare indirizzi e obiettivi. Questo apre anche a noi Italiani spazi di manovra più ampi all’interno della politica europea, ma non dobbiamo tornare a sbagliare.
Lo sbaglio peggiore che potremmo fare sarebbe lasciar vincere il populismo, tornare ad accumulare debito e non far le riforme strutturali necessarie, pur di mantenere la pace sociale, pur di non vedere disordini e manifestazioni o scontri nelle strade. Sta a noi elettori delegittimare con il nostro voto contrario chi ricorre al populismo e predica la violenza. Ce la faremo?
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