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L’ultimo libro di Francis Fukuyama (Liberalism and its discontents, ed. Ferrar, Straus & Giroux, New York 2022) è probabilmente la migliore introduzione a qualunque riflessione sulla crisi interna delle democrazie occidentali, in primis di quella americana, che la tumultuosa fine della presidenza Trump ha rivelato in modo drammatico al mondo intero, ma che divampa da alcuni lustri nei campus universitari e nei media.
Il liberalismo, dice Fukuyama, è la dottrina sviluppata nella seconda metà del XVII secolo (al termine delle devastanti guerre di religione europee) che pone limiti ai poteri dei governi sotto forma di costituzione, cioè di legge fondamentale. Inoltre crea istituzioni che proteggono i diritti degli individui sottoposti alla giurisdizione degli stati. Il liberalismo classico è compatibile con un’ampia gamma di opinioni politiche, purché concordino sull’importanza fondamentale della legge, dell’uguaglianza di diritti fra gli individui, della libertà di opinione.
Il liberalismo ha sempre subito critiche e attacchi pericolosi in nome del primato dei diritti di gruppo rispetto ai diritti dell’individuo: nazionalismo, comunismo, nazismo, fanatismo religioso hanno portato guerre e devastazioni da cui il liberalismo è uscito vincitore, per lo meno sino a ora.
Inoltre le società che hanno abbracciato le dottrine liberali sono state accusate di aver sviluppato o tollerato al proprio interno il colonialismo, il razzismo e la schiavitù, l’eccessivo liberismo economico che concentra ricchezza e potere nelle mani di pochi. Tutte accuse fondate che, dice l’autore, equivalgono ad accuse di ‘associazione a delinquere’ per un gran numero di cittadini e di rappresentanti politici, che però non inficiano la validità della dottrina liberale in quanto tale, ne rivendicano anzi un’applicazione più ampia e più puntuale. Il liberalismo infatti contiene in sé la base teorica per auto-correggersi.
La storia ha poi dimostrato che il liberalismo per funzionare deve accompagnarsi a istituzioni democratiche che permettano la più ampia rappresentanza degli interessi locali e di gruppo all’interno del consesso che detiene il potere legislativo. Occorre però che tutti accettino il metodo razionale di una discussione comune sui fatti. Ed è proprio su questo aspetto che incide pericolosamente la crisi attuale.
L’odierna crisi del liberalismo democratico nasce come critica della concezione liberale delle dinamiche sociali. Il liberalismo presume che gli individui si raggruppino in famiglie, tribù, corporazioni o gruppi politici per necessità e per difendere i propri interessi. I critici sostengono invece che è il potere a imporre la suddivisione della società in gruppi diversi, funzionali all’esercizio del potere stesso, perciò qualunque gruppo sociale esistente è frutto di una storia di violenze. La storia e i risultati di tali violenze, sostengono i critici, vanno indagati e giudicati liberamente dagli stessi appartenenti al gruppo, senza interferenze esterne che costituirebbero ulteriori manipolazioni più o meno violente. Viene così meno la possibilità di una discussione razionale collettiva sui fatti. Ogni gruppo rivendica anzi il diritto di zittire o ‘cancellare’ chi esprime opinioni contrarie alle proprie.
Ma ancora più pericolosa è la negazione radicale della possibilità di verificare o falsificare i fatti e di comunicare attraverso un linguaggio comune. Dagli studi del linguista Ferdinand de Saussure alle dottrine lacaniane, dal decostruzionismo di Barthes fino alle teorie di Foucault, un filone di cultura contemporanea ha sviluppato il concetto che tutto è soggettivo, non esistono fatti ma soltanto interpretazioni. L’atto di parlare definisce la realtà di cui parliamo, che non esiste in modo univoco al di fuori del linguaggio che usiamo per descriverla. La conoscenza è incastonata nell’esperienza personale, nell’interazione di ciascuno di noi con il proprio ambiente, non è un atto cognitivo astratto, dunque non può essere davvero condivisa fra persone e gruppi diversi, come pretende la scienza. L’interazione di ognuno di noi con l’ambiente è sempre un gioco di forze, dunque anche la conoscenza dipende dagli equilibri delle forze in gioco, è una questione di potere. I fatti sono interpretazioni, e le interpretazioni sono una questione di potere. Pur se articolato in modo diverso, questo atteggiamento antiscientifico, antirazionale e antiliberale che prescinde dai fatti o crede nell’esistenza di una serie di fatti ‘alternativi’, è oggi comune alle formazioni politiche estreme sia di destra sia di sinistra e porta alla giustificazione della violenza in nome del diritto a proteggere o liberare ‘identità’ sempre più frammentate e isolate da tutte le altre.
Non è possibile render conto in un breve riassunto della razionale eleganza e della complessità della visione che Fukuyama presenta in questo saggio. Possiamo soltanto sperare che venga tradotto e pubblicato in Italia e che venga letto e discusso da molti. Chi può, lo legga nella lingua originale: vale la pena farlo.
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