Il Crisantemo e la Spada è un saggio di antropologia culturale scritto dalla prof.ssa Ruth Benedict. Nata nel 1887 a New York, fu assistente del prof. Franz Boas, considerato il fondatore della moderna antropologia, e fu una delle prime donne ad occuparsi di questa disciplina.
Per moltissimi anni la Benedict insegnò alla Columbia University e lì ebbe una cattedra fino al 1948, quando morì, a soli due anni di distanza dalla pubblicazione de Il Crisantemo e la Spada (1946).
Il saggio fu commissionato alla Benedict dal governo americano che mirava a conoscere meglio la mentalità del nemico giapponese. Siamo infatti nel pieno della Seconda guerra mondiale. Il Giappone si era schierato con la Germania nazista e l’Italia fascista e voleva guadagnare l’ammirazione di tutto il mondo affermando la propria egemonia nella zona orientale del globo. L’obiettivo dei giapponesi era quello di dimostrare al mondo la propria potenza militare e porsi così al “giusto posto” nella società internazionale.
In questo contesto storico-politico, gli americani intuirono che, per affrontare in modo vincente la guerra nel Pacifico, avevano bisogno di andare alla scoperta della cultura e delle tradizioni del popolo giapponese. E questo non solo per combattere il nemico, ma anche perché, se gli americani avessero vinto la guerra - come speravano - avrebbero dovuto interagire in modo continuativo con la popolazione nipponica e, in considerazione di ciò, diventava essenziale capire il modo di pensare e di agire dei giapponesi.
Nell’affrontare il compito che il governo le aveva affidato, la studiosa si rese conto immediatamente di avere un enorme problema di ordine metodologico. Non poteva recarsi in Giappone, per via della guerra. E questo per un antropologo culturale rappresentava senz’altro un grave minus.
La Benedict decise allora non solo di studiare tutta la letteratura esistente sul Giappone ma, per garantire comunque un substrato empirico alla sua ricerca, si mise anche ad intervistare moltissimi prigionieri di guerra (i giapponesi che erano stati catturati dagli americani) ed i moltissimi giapponesi che vivevano negli USA ma che erano stati educati in Giappone (gli ISSEI e i NISEI, ossia i giapponesi residenti all’estero di prima o di seconda generazione).
Il titolo dell’opera “IL CRISANTEMO E LA SPADA” già esprime la tesi della Benedict, ovverosia il paradosso, la contraddittorietà del popolo giapponese. Il crisantemo rappresenta infatti l’IKEBANA cioè il versante artistico, la voglia dei giapponesi di basare la loro vita sulla cultura e sulla sapienza. Mentre la spada (KATANA) è invece la loro volontà di combattere per quello in cui credono, è la difesa dell’antico prestigio dei Samurai, esprime il versante militarista del Giappone. Il titolo quindi dà già un’idea del grande paradosso che il Giappone sembra racchiudere.
Nel suo libro, la Benedict mette in luce tutta una serie di incoerenze che, agli occhi di noi occidentali, restituiscono l’immagine di un popolo davvero molto lontano dai nostri schemi culturali.
Veniamo ai contenuti di questo saggio. In primo luogo Ruth Benedict analizza i rapporti dei giapponesi con la guerra. Il saggio, come abbiamo detto, è stato scritto con l’intento di essere utilizzato per scopi bellici e quindi dalla guerra si comincia. La Benedict dice “dovevo studiare minuziosamente la guerra per cogliere attraverso di essa ogni singola manifestazione del carattere giapponese”.
Sappiamo che i giapponesi erano alleati di Germania e Italia (il famoso Patto Tripartito, l’Asse Roma – Berlino – Tokio che gli italiani avevano ribattezzato RoBerTo). La Benedict inizia il suo libro andando ad analizzare le ragioni che avevano spinto il Giappone in guerra e spiega che esse erano profondamente diverse da quelle che avevano animato il nemico occidentale. Il Paese del Sol Levante era infatti stato mosso dalla volontà di ristabilire un ordine gerarchico mondiale al cui vertice doveva porsi, per l’appunto, il Giappone stesso.
Già in questa affermazione troviamo riassunti due punti cardine della tesi della Benedict:
1) il fatto che i giapponesi credessero fortemente in un assetto gerarchico della società;
2) la trasposizione di questo modello gerarchico anche sul piano delle relazioni internazionali.
Quindi una prima parola chiave attorno alla quale si innesta la tesi antropologica della Benedict è GERARCHIA.
La studiosa va quindi ad indagare da cosa nasca storicamente questa inclinazione dei giapponesi per l’ordine gerarchico che regge ogni cosa. E comprende che si tratta di qualcosa che viene da lontano. Infatti in Giappone – fino ai tempi della restaurazione Meiji, quindi fino alla metà del XIX secolo – vi è sempre stata una rigida stratificazione in classi sociali, in caste. Quindi c’è sempre stata, storicamente, una forte gerarchia a regolare i rapporti sociali. Non dimentichiamo che il Giappone ha rappresentato uno dei regimi feudali più longevi al mondo. La dinastia Tokugawa aveva voluto far restare il Giappone in uno stato di completo isolamento rispetto al resto del mondo, e questo stato di isolamento era perdurato per secoli, fino alla metà dell’800, e aveva consentito un radicamento profondissimo di una società di tipo feudale.
Partendo da questa concezione gerarchica della società, secondo la Benedict, il principio fondamentale che regola le relazioni per il popolo giapponese è riassunto nel motto “OGNUNO DEVE STARE AL SUO POSTO”. Questo motto, negli anni ‘30 e ‘40 del ‘900, era diventato il cardine sul quale si fondava la politica estera nipponica e che aveva portato il Giappone all’ingresso in guerra al fianco dei nazi-fascisti.
L’idea con la quale i giapponesi entrarono in guerra è che la nazione giapponese dovesse porsi a capo del mondo intero perché quello era il posto che le spettava, quello era il suo giusto posto!!
Significativa a questo proposito è una dichiarazione che alcuni diplomatici giapponesi consegnarono al Segretario di Stato americano, Cordel Hull, lo stesso giorno dell’attacco di Pearl Harbour (7 dicembre 1941).
In questa dichiarazione si diceva: “E’ sempre stato un punto fermo del governo giapponese mettere ogni nazione in grado di trovare il proprio posto nel mondo. Il Governo giapponese non può tollerare il protrarsi della presente situazione dato che essa è in aperto contrasto con la linea fondamentale giapponese, diretta a permettere che ogni nazione goda nel mondo del posto che le compete”. Come a dire: in questo momento le cose non sono messe secondo l’ordine giusto quindi noi abbiamo il dovere di rimetterle a posto.
Questo principio del “GIUSTO POSTO” si rifaceva ad una regola di vita che per i giapponesi era radicata nelle loro coscienze.
Abbiamo già detto che il Giappone aveva mantenuto per secoli una struttura feudale, quindi per il popolo nipponico la gerarchia e la non uguaglianza rappresentavano dati di fatto assolutamente naturali, “come il respirare” dice la Benedict.
Nella seconda guerra mondiale i giapponesi considerarono l’intero sistema delle relazioni internazionali alla luce del loro concetto di gerarchia: quello che facevano nei loro rapporti interni, pensarono di poterlo fare anche a livello internazionale.
Ora, se confrontati con gli ideali di uguaglianza e libertà espressi dagli USA, la questione diventava complicata. Due popoli così diversi e così distanti a livello proprio di principi fondativi, di pilastri sui quali si basa la filosofia di vita, si trovavano a fronteggiarsi e le forze in campo si dimostravano talmente agli antipodi da rendere necessario che qualcuno aiutasse il governo americano a comprenderle.
Ecco, questa fu la grande intuizione del Presidente Roosvelt: rendersi conto che era necessario studiare la mentalità, gli usi, i costumi del nemico per combatterlo al meglio e per sconfiggerlo.
La Benedict inizia quindi a studiare la cultura, la storia, i costumi giapponesi e si rende conto che, oltre ad avere di mira il posizionamento al vertice mondiale, un altro obiettivo (più di ordine filosofico, morale) che avevano i giapponesi era quello di ottenere una vittoria che segnasse il trionfo dello spirito contro la materia.
Su questo punto l’analisi della Benedict è davvero interessante.
Secondo la studiosa infatti la guerra tra americani e giapponesi rappresentava la lotta “tra la nostra fede nelle cose (da parte americana) e la loro fede nello spirito (da parte giapponese)”. Nel corso della guerra questa fiducia nello spirito venne presa proprio alla lettera dai giapponesi e nei loro manuali di guerra si legge questo slogan: “Contrapporre il nostro addestramento al numero degli avversari, il nostro corpo al loro acciaio”. La massima espressione di questo principio di superiorità dello spirito sulla materia si realizzò nei KAMIKAZE, i piloti giapponesi che si scagliavano con i loro piccoli aerei contro le navi americane in uno scontro suicida. Per i giapponesi le loro armi, i loro cannoni, le loro navi erano solo il simbolo esterno del loro spirito immortale, un po’ come un tempo la spada del samurai era stata il simbolo del suo valore spirituale. Partendo da questi presupposti, la radio giapponese arrivò persino a osannare la vittoria dello spirito sulla morte, in quanto la morte rappresenta un evento puramente fisico.
I giapponesi dimostravano inoltre di avere un atteggiamento decisamente sprezzante nei confronti dei malati e dei feriti. Quando videro come gli americani trattavano i propri malati, non compresero perché ci fosse tutta questa cura per guarire i feriti. Per loro curare i malati era una rinuncia all’eroismo. Non avevano nemmeno previsto che ci potessero essere sul campo squadre specializzate per portare via i feriti o per le operazioni di pronto soccorso. In caso di emergenza si provvedeva addirittura all’eliminazione dei soldati ricoverati negli ospedali.
Era successo in più di un’occasione che i giapponesi si fossero trovati a dover abbandonare posizioni in cui c’erano ospedali. Siccome non c’era nessun programma di evacuazione dei feriti, quando il nemico stava per occupare il campo, l’ufficiale medico di turno, prima di abbandonare l’ospedale, passava a sparare ai ricoverati, ad uno ad uno.
Qui c’è il passaggio ad un altro tema critico che è quello della RESA, dell’ARRENDERSI come estremo rimedio di fronte alla sconfitta.
Per gli americani il fatto di doversi arrendere quando le condizioni diventavano disperate non implicava nessun disonore. Invece per i giapponesi sì. Per i giapponesi piuttosto che arrendersi era meglio morire. Dovevano fare HARAKIRI con le loro armi, uccidersi con le loro ultime bombe o buttarsi all’assalto senza armi, in un generale suicidio collettivo, ma non dovevano arrendersi.
A questo punto possiamo dire che, per comprendere la cultura giapponese, una seconda parola chiave (la prima era GERARCHIA) è SUPERIORITA’ DELLO SPIRITO.
Ma c’è anche una terza parola chiave che potremmo sintetizzare con il motto “E’ TUTTO UNA QUESTIONE DI PREVISIONE”. Per i giapponesi la possibilità di prevedere un evento implicava necessariamente che, con riferimento a quell’evento, non doveva sorgere nessuna apprensione da parte del popolo. Ciò a cui veniva dato risalto era il dato di aver perfettamente previsto un determinato fatto, anche se costituiva un accadimento negativo. La radio giapponese, durante la guerra, rassicurava continuamente la popolazione dicendo che ciò che stava accadendo era tutto perfettamente previsto. La prof.ssa Benedict afferma che per i giapponesi era fondamentale credere che tutto fosse stato perfettamente pianificato, credere che tutto ciò che accadeva era stato attivamente da loro voluto e non era stato subìto.
Ciò che viene sottolineato come dato culturale è che, per i giapponesi, è fondamentale la PREVISIONE DEI FATTI e il nemico più grande è quindi l’IMPREVISTO. Si trattava, dunque, di un punto di vista che si scontrava diametralmente con quello degli americani che, invece, si trovavano a combattere perché erano stati costretti ad entrare nel conflitto bellico (peraltro, di fatto, proprio dai giapponesi) senza nemmeno aver ricevuto una dichiarazione di guerra, quindi in modo del tutto imprevisto (il presidente Roosevelt definì quello dell’attacco a Pearl Harbor il GIORNO DELL’INFAMIA).
Quindi la posizione degli americani era quella di una REAZIONE rispetto al nemico che li aveva attaccati (“I nemici l’hanno voluto e ora faremo loro vedere di che cosa siamo capaci”), mentre i giapponesi avevano la convinzione che in tutto quello che stava accadendo non ci fosse nulla di imprevisto.Due visioni completamente opposte.
Dunque, tre parole chiave: GERARCHIA – SUPERIORITA’ DELLO SPIRITO – PREVISIONE DEGLI EVENTI. Ma di questi tre cardini ve n’è uno che senz’altro rappresenta il perno centrale ed è la GERARCHIA. La Benedict va quindi ad analizzare in modo sistematico in cosa consistesse esattamente questo concetto di GERARCHIA che stava così tanto a cuore al nemico.
La studiosa procede nell’esame delle principali istituzioni che esprimevano per i giapponesi il concetto di gerarchia: la FAMIGLIA, lo STATO, ma anche la VITA RELIGIOSA ed ECONOMICA.
E si rende conto che in Giappone è talmente radicato questo dogma della gerarchia che ogni forma di contatto umano, persino ogni saluto, deve indicare esattamente la diversa posizione sociale occupata dai singoli individui.
Esistono forme verbali diverse a seconda che ci si rivolga ad un familiare o ad un estraneo. Esistono parole che si possono rivolgere solo a persone con le quali si è in confidenza e parole differenti (ma che hanno il medesimo significato semantico) che si devono utilizzare in contesti più formali.
Esiste quella che viene chiamata la LINGUA DEL RISPETTO alla quale si devono accompagnare inchini e inginocchiamenti. E gli inchini non sono tutti uguali. Ci sono per esempio inchini che vanno bene per un certo tipo di persone ma che, se fossero rivolti ad altri, potrebbero essere presi come un insulto. Si va dall’inginocchiarsi come se fosse una proskunesis, al semplice inclinare la testa. E c’è una scala in base alla quale fare il giusto inchino, che tiene conto non solo delle differenze sociali ma anche del sesso, dell’età, della primogenitura e delle parentele.
Fin da quando sono piccolissimi, ai giapponesi viene insegnato l’esatto ordine gerarchico degli inchini, per cui il fratello minore si deve inchinare dinnanzi al padre ed anche al fratello maggiore. Il figlio primogenito si inchina di fronte al padre. La moglie si inchina di fronte al marito. La sorella si inchina di fronte al padre e di fronte a tutti i fratelli maschi di tutte le età, anche se sono più piccoli di lei.
Citiamo un altro esempio di comportamento che avviene nel rispetto della scala gerarchica familiare: il padre, nella sua qualità di capo famiglia, deve essere servito per primo durante i pasti e ha la precedenza nell’uso del bagno di casa. Tale dogma della gerarchia, che viene insegnato all’interno della famiglia, verrà poi applicato all’esterno, nelle relazioni sociali, nelle relazioni economiche, nella vita politica. Quindi c’è una sorta di fil rouge che unisce saldamente quello che avviene in casa con quello che avviene fuori casa. La vita sociale giapponese si basa su rapporti di classe perché è in un certo qual modo la promanazione esterna di ciò che avviene nei rapporti familiari.
La Benedict ribadisce più volte che tutta la storia nazionale del Giappone mostra una società fortemente divisa in classi e in caste, in cui ciascuno si abitua sin dalla nascita a stare al suo giusto posto. E questo provoca una situazione di stagnazione delle posizioni sociali. In un quadro del genere non è praticamente prevista la possibilità di elevarsi socialmente. La mobilità non esiste: nasci nell’ambito di una determinata classe sociale e in quella resti.
Non abbiamo modo di sviluppare il tema delle differenze tra le classi sociali perché è davvero troppo ampio. Posso dirvi che, nell’epoca dello Shogunato dei Tokugawa (quindi fino alla metà dell’800), c’erano, in ordine gerarchico: la famiglia imperiale, i nobili di corte e poi 4 caste: i guerrieri (samurai), i contadini, gli artigiani e i mercanti (infine vi era una quinta casta, quella degli ETA, cioè di coloro che praticavano dei mestieri tabù come i becchini, gli spazzini, i conciatori di pelli).
Erano però stati escogitati dei metodi per aggirare la rigidità del sistema delle caste. I mercanti che avevano soldi, per garantire una posizione sociale più elevata alla loro discendenza ed entrare così a far parte della casta dei samurai, ricorrevano all’istituto dell’adozione. Ma non all’adozione di un figlio (che era rarissima) ma all’adozione di un marito per la propria figlia. Questo ‘marito adottivo’ diventava erede del proprio suocero. Quindi succedeva che il discendente di un mercante facoltoso entrava a far parte della casta dei samurai perché sposava la figlia di un guerriero e i samurai (che possedevano sì un titolo molto prestigioso ma che solitamente avevano poche sostanze) entravano a far parte della famiglia di un ricco mercante che li manteneva tutti.
Tutto questo durò fino alla riforma Meiji che abolì le distinzioni tra stemmi e abbigliamenti diversi per classi sociali ma che continuò, nella sostanza, a perpetuare la rigida struttura gerarchica tipica del Giappone.
L’errore del Giappone, nella seconda guerra mondiale, fu quello di credere che tutto questo schema di gerarchie si potesse esportare all’esterno. Possiamo dire che i giapponesi non si erano resi conto che il principio dell’accettare il “giusto posto” era un prodotto tipico solo della loro società, ma che gli altri stati non condividevano affatto e che non erano assolutamente disponibili ad accettare.
La Benedict dice che le truppe giapponesi hanno continuato fino all’ultimo a stupirsi che, quando occupavano un territorio, la popolazione non desse loro il benvenuto. Secondo loro era impossibile che un fatto così desiderabile come quello di essere messi al giusto posto nella scala gerarchica del Giappone non venisse apprezzato.
La studiosa passa poi a fare una analisi approfondita del SISTEMA ETICO giapponese. Pone in luce come per il popolo giapponese sia fondamentale il SENSO DI DEBITO che provano nei confronti sia del passato che del presente. I giapponesi si sentono in debito nei confronti di tutto ciò che li ha preceduti e di tutto ciò che è presente/contestuale. Si sentono in debito nei confronti della società in cui vivono e dalla quale ricevono le cure, il benessere, l’educazione. Secondo la prof.ssa Benedict addirittura arrivano a sentirsi in debito per il solo fatto di essere stati generati.
Il termine che esprime il SENTIRSI OBBLIGATI e che comprende tutti gli aspetti del debito di un individuo, da quelli più importanti a quelli più semplici, in giapponese è ON. Da noi può essere tradotto con più parole, che nella nostra lingua denotano sfumature diverse: si va da LEALTA’, OBBLIGO a GENTILEZZA, DEVOZIONE. In giapponese però il termine ON racchiude un po’ tutte queste sfaccettature. ON è il peso, l’obbligo, il debito che si sente gravare su se stessi e al quale si cerca di far fronte al meglio delle proprie possibilità.
Il primo e principale ON è l’ON IMPERIALE, cioè il debito che ogni persona deve avere nei confronti dell’Imperatore, è il senso di devozione illimitata nei confronti dell’Imperatore. Ma esiste anche un ON nei confronti di persone meno importanti dell’Imperatore. Per esempio nei confronti dei propri genitori. I genitori ti hanno dato casa, cibo, abiti quando eri piccolo ed indifeso ed ora che sei adulto, hai tu il dovere di occuparti di loro, ripagando il tuo ON verso i tuoi genitori.
Un aspetto che la studiosa mette bene in luce è che, per i giapponesi, il fatto di portare un ON nei confronti di qualcuno significa avere un debito di riconoscenza che costituisce un peso. Avere un ON nei confronti di qualcuno provoca in qualche modo un senso di risentimento. Se nei confronti dei propri familiari è considerato normale portare un ON e se ne accettano le conseguenze, nessuno vuole però addossarsi un debito di riconoscenza nei confronti di estranei. Non si aiutano le persone per non andare a gravarle di un obbligo di gratitudine. Ed è per questo che i giapponesi si irritano tantissimo quando ricevono un favore da sconosciuti. Se ricevo una gentilezza da una persona sconosciuta, questo fatto provoca a mio carico un ON nei confronti di quella persona, e quell’ON, quell’obbligo, viene a pesare su di me e mi crea risentimento. Quindi piuttosto preferisco non ricevere niente da nessuno, così non mi si creano obblighi. Perfino l’offerta di una sigaretta da parte di una persona estranea mette a disagio un giapponese. Se qualcuno ti offre una sigaretta, tu gli risponderai KINO DOKU, che letteralmente significa: ‘SONO SPIACENTE (cioè sono spiacente per l’obbligo che mi si crea nei tuoi confronti dal momento che mi hai fatto la cortesia di offrirmi una sigaretta) / SONO DEPRESSO (sono depresso per essere stato costretto ad accettare un atto di generosità non richiesta).
Altri modi di rispondere a qualcuno che ti fa un favore sono:
ARIGATO: che letteralmente significa CHE COSA DIFFICILE (da accettare);
SUMIMASEN: che significa letteralmente “è qualcosa che non ha fine” nel senso “ho ricevuto un ON da te che non mi sarà possibile ripagare e mi dispiace trovarmi in questa situazione”;
KATAJIKENAI: che significa “ho ricevuto un’offesa a causa dell’eccezionale beneficio ricevuto in quanto non mi reputo degno di un simile beneficio”.
Si tratta di un modo di pensare davvero molto lontano dal nostro. Per certi versi addirittura incomprensibile. Se da una parte c’è l’ON che, in quanto debito, va pagato, dall’altra per i giapponesi ci sono i doveri che impongono di pagare quel debito.
Esistono due categorie distinte di forme di pagamento dell’ON:
- c’è il GIMU che è una forma di pagamento illimitata nel tempo. A sua volta, si divide in CHU che è il dovere verso l’imperatore e in KO che è il dovere verso i genitori e gli antenati. Non esiste in giapponese una parola per esprimere il debito dei padri nei confronti dei propri figli ma per un giapponese si paga il KO nei confronti degli antenati anche trasmettendo ai propri figli quelle stesse cure che si sono ricevute da parte di quegli antenati.
- Poi c’è il GIRI che è un po’ come il nostro concetto di pagare un debito in denaro. Cioè è una forma di pagamento che deve rispettare con perfetta equivalenza matematica l’entità del favore ricevuto. E questo è un tipo di pagamento che, a differenza del GIMU, può avere un limite di tempo.
In Giappone si usa dire che la vita di ogni individuo è divisa in tanti cerchi: c’è il cerchio del chu, il cerchio del ko, il cerchio del giri, il cerchio delle passioni e così via. E tutti questi cerchi devono restare in equilibrio tra loro perché, se si perde l’equilibrio tra i diversi cerchi, allora nascono le cattive azioni.
A proposito di GIRI, esistono delle curiose usanze quanto allo SCAMBIO DI DONI. Dunque, funziona così: due volte l’anno, secondo norme di un cerimoniale molto rigoroso, si preparano i doni da dare in cambio di un regalo ricevuto sei mesi prima. Ma è proibito ricambiare il dono ricevuto con un dono più importante. Se dovesse accadere, i giapponesi in tono dispregiativo dicono che il donatore HA RICAMBIATO UNA SARDINA CON UN TONNO!!
Una particolare forma di Giri è quella verso il proprio buon nome. Per esempio rientra nel Giri verso il proprio buon nome il fatto che una donna, nel pieno dei dolori del parto, non debba mettersi a urlare (perché, se lo facesse, recherebbe disonore al buon nome della sua casa).
Ruth Benedict passa poi in rassegna le diverse PASSIONI del popolo giapponese.
I giapponesi hanno un codice morale molto indulgente nei confronti dei piacere dei sensi. Considerano i piaceri fisici come qualcosa di positivo, che deve essere coltivato, ricercato, ma al tempo stesso dicono che bisogna saper controllare i piaceri in modo che non interferiscano con le cose serie della vita. Il loro codice etico è dunque molto particolare: c’è una tensione costante tra la ricerca del piacere e la considerazione del piacere come qualcosa che va imparato per poter essere controllato e confinato.
Chi mostra di saper godere delle passioni umane viene ritenuto saggio, a patto che sappia sacrificare il piacere di fronte agli impegni più seri e più importanti della vita.
I piaceri fisici che i giapponesi preferiscono sono:
1) Fare il bagno caldissimo. Dal servo più umile al signore più potente, tutti i giapponesi desiderano immergersi quotidianamente, all’imbrunire, in acqua molto calda. E’ un rito che si ripete ogni giorno. Si immergono e si rilassano completamente. E’ una forma di piacere che, secondo i giapponesi, diventa più intenso mano a mano che si invecchia. Anche in questo caso si deve rispettare un ordine gerarchico: prima si immerge il nonno, poi il padre, poi il figlio maggiore e così via. La contropartita al bagno caldo sono le docce gelate. Per quel principio che dicevamo prima per cui si deve sempre saper controllare il piacere, i giapponesi si sottopongono anche più volte al giorno a docce gelate, allo scopo di temprare lo spirito.
2) Un altro piacere è quello del SONNO. Potremmo definirla l’arte del sonno visto che i giapponesi sono riusciti a perfezionare modi di dormire per noi occidentali impensabili. Riescono a rilassarsi profondamente anche in posizioni per noi scomode.
3) Un altro piacere è legato al cibo, all’atto del NUTRIRSI: ci sono complessi cerimoniali che durano ore, con un numero infinito di portate, ognuna delle quali costituita da pochissimo cibo. Lo scopo principale infatti non è quello di mangiare quanto di apprezzare il cibo per il suo sapore ma anche per il suo aspetto, per come viene presentato. Quindi il piacere è per il palato ma anche per gli occhi.
4) Infine, vi è la passione per le bevande alcooliche. Il bere è considerato un mezzo di evasione, un mezzo di distensione. Ma il cerchio del mangiare e il cerchio del bere sono ben distinti e quindi o si mangia o si beve, non si fanno le due cose insieme.
Nell’ultimo capitolo del suo saggio (che si intitola IL GIAPPONE DAL GIORNO DELLA SCONFITTA) la studiosa dà atto della enorme trasformazione che ha attraversato il Giappone dopo la resa.
Non si fa neppure un accenno alle due bombe atomiche che il 6 e il 9 agosto del 1945 l’esercito americano sganciò su Hiroshima e Nagasaki.La Benedict si limita a dire che il 14 agosto 1945 l’Imperatore annunciò che la guerra era stata persa e che “i giapponesi seppero accettare tutte le conseguenze di questo fatto” iniziando un corso politico completamente nuovo.
Ecco, una mia personalissima riflessione a questo proposito è stata: come hanno fatto i giapponesi ad accettare due bombe atomiche e a restare alleati fino ad oggi degli Stati Uniti? E la risposta che mi sono data è che hanno potuto accettare tutto questo proprio grazie alla loro cultura, a quel modo di pensare e di interpretare la vita che la Benedict ci ha spiegato. Una volta compreso che non potevano proseguire oltre nella guerra, i giapponesi hanno accettato le sorti della sconfitta e hanno accettato il nuovo ordine delle cose, hanno accettato il giusto posto che la storia aveva assegnato loro.
Dice la Benedict: “Gli Stati Uniti e l’amministrazione del Generale MacArthur hanno evitato di scrivere nuovi simboli di umiliazione e si sono limitati ad esigere ciò che, agli occhi dei giapponesi, appare come una naturale conseguenza della loro sconfitta”.
Quindi, in definitiva, lo studio che Ruth Benedict compì sul popolo giapponese fu di grandissimo aiuto al governo americano per decriptare la mentalità e lo stile di vita di una popolazione così diversa da quelle occidentali ed ancora oggi costituisce una pietra miliare per coloro che desiderano comprendere il complesso mondo del Sol Levante.
“Il primo grande passo compiuto dai giapponesi nella direzione di un mutamento sociale consiste nell’aver identificato la loro guerra di aggressione con un ‘errore’ ed una causa perduta; la loro aspirazione è ora quella di trovare il modo di riacquistare un posto onorevole fra le altre nazioni amanti della pace. Perché ciò possa realizzarsi è necessario il mantenimento della pace nel mondo”.
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