'L’idea di libertà'
Lezione a due voci di Alberto Cavaglion e rav Alberto Moshe Somekh

16/10/2024

Alberto Cavaglion insegna Storia dell’Ebraismo all’Università di Firenze, ha curato l’edizione commentata di Primo Levi, Se questo è un uomo (Einaudi, 2012). Tra i suoi lavori recenti: Verso la Terra promessa. Scrittori italiani a Gerusalemme da Matilde Serao a Pier P. Pasolini (Carocci, 2016); Guida a ‘Se questo è un uomo’, Carocci, 2020; Decontaminare le memorie. Luoghi, libri, sogni, Add editore, 2021; La misura dell’inatteso. Ebraismo e cultura italiana 1815-1988, Viella, 2022; ‘L’astuto imbecille’ e altri scritti sveviani, Ed. di Storia e Letteratura, 2023.

Alberto Moshe Somekh è nato a Milano il 4-2-61 da famiglia di illustri tradizioni rabbiniche. Ha studiato presso le Scuole della Comunità Ebraica di Milano, il Collegio Rabbinico e la Facoltà di Lettere dell'Università Statale di Milano, laureandosi cum laude in Filologia Aramaica. Successivamente ha studiato presso la Yeshiva University di New York, che gli ha conferito un dottorato rabbinico nel 2002. È stato Rabbino a Bologna dal 1986 e dal 1993 è Rabbino a Torino. Attualmente svolge un incarico di insegnamento in Studi Ebraici part-time presso il Liceo Ebraico (studenti avanzati) e alla Scuola Rabbinica di Milano. Ha pubblicato diversi libri e articoli di studi ebraici e partecipa a ricerche sul patrimonio ebraico in Italia. Fra i suoi testi: Katuv le-Chayim: Spunti di riflessione dalle Tefillot del Giorno di Kippur (Espiazione), Firenze, 1994; Pirké Avòt: Lezioni dei Padri con il commento di R.D.Z.S. Segre di Vercelli, Milano, 1996; Essere Comunità, Milano, 2002; introduzione e commento a R. Yonà da Gerona, Sefer Hayirà, Il Libro del Rispetto, Un trattato di etica ebraica quotidiana, Milano, 2004; La Haggadà di Pésach commentata da Rav Somekh, Milano, 2012; introduzione, traduzione e note a R. Chayim Yossef David Azulay (Chidà), Ma’agal Tov, Il Buon Viaggio, Belforte, Livorno, 2012; Sheal Na: Domanda!, 22 Lezioni su Responsa di Maestri contemporanei, Belforte, Livorno, 2018; L’Albero capovolto, Lezioni sulla Torah, La Giuntina, Firenze, 2022.

Ecco il testo base della lezione di Rav Somekh:

BEN CHORIN: DALLA SCHIAVITU’ ALLA LIBERTA’

Si partirà dalla Mishnah, la codificazione più antica del diritto rabbinico, opera di R. Judah ha-Nassì (“il Principe”), vissuto nella Terra d’Israele all’inizio del III secolo. La Mishnah costituisce la fonte della Torah Orale.

Mishnah Avot 6, 2: Dice il versetto: “E le Tavole erano opera di D.; la Scrittura era a sua volta Scrittura di D. incisa (charùt) sulle Tavole” (Esodo 32, 16)”. Non leggere charùt (“inciso”), bensì cherùt (“libertà”), perché è ben chorin (“uomo libero”) solo chi si dedica allo studio della Torah”.

La parola libertà è perlopiù connessa con la nozione dei diritti, ma nell’ebraico biblico non esiste una parola per designare i diritti: la Bibbia ebraica si esprime per obblighi e divieti. Occorre pertanto ragionare sulle situazioni limitanti che a queste categorie fanno riferimento per poter dedurre ex contrario la concezione della libertà nella legge ebraica. Da alcuni dei Dieci Comandamenti possiamo arguire l’espressione di altrettante forme di Libertà che consideriamo fondamentali:

1) Libertà di gestire il proprio tempo (Shabbat)

2) Libertà di avere una famiglia (Non commettere adulterio)

3) Libertà di detenere proprietà (Non rubare)

4) Libertà di parola (Non commettere falsa testimonianza).

Si tende ad apprezzare il valore della libertà quando essa viene meno. Ai tempi della redazione della Mishnah era ancora pienamente operativa nella società la distinzione fra libertà e schiavitù e questo testo ne tiene conto. Sebbene oggi il percorso di affrancamento sia ormai definitivamente completato e la condizione servile non trovi più alcuna applicazione pratica, risulterà proficuo confrontare fra loro gli istituti giuridici relativi all’antico schiavo per comprendere la prospettiva che il ben chorin, l’uomo libero, assume nel pensiero degli antichi Maestri d’Israele. È un tema fondamentale per gli Ebrei che dedicano interamente a esso una delle principali ricorrenze annuali, Pessach, con la rievocazione dell’Uscita dall’Egitto.

 

1) Libertà di gestire il proprio tempo

Mishnah Berakhot 3, 3: Le donne, gli schiavi e i minori sono esenti dal precetto di leggere lo Shemà’ (la sera e la mattina).

Gli schiavi sono esenti dai precetti positivi legati a un certo lasso di tempo. “La coscienza del tempo è la facoltà che contraddistingue proprio l’uomo libero, il quale può disporre del proprio tempo come meglio crede. Per lo schiavo, invece, il tempo costituisce una maledizione oppure qualcosa che lo lascia indifferente, non essendo uno strumento che gli può essere di aiuto nei suoi propositi. L’uomo libero vorrebbe che il tempo passasse lentamente perché, presumibilmente, lo impiega per le cose che lo interessano. Lo schiavo vorrebbe accelerare il tempo, perché giunga presto la fine dei suoi legami oppressivi. Non essendo in grado di avere un controllo sul tempo, lo schiavo cresce insensibile ad esso: inesattezza ed incoscienza costituiscono il suo carattere…” (Joseph B. Soloveitchik, Abraham R. Besdin, Reflections of the Rav, Ktav, New York, 1979. Trad. it. Riflessioni sull’Ebraismo, La Giuntina, Firenze, 1998, p. 211). Passati dalla condizione di schiavi a quella di uomini liberi con l’uscita dall’Egitto, per prima cosa gli Ebrei dovettero riappropriarsi della nozione di tempo. Da qui il precetto del pane non lievitato. Per insegnare all’uomo libero che, se vuole realizzarsi deve imparare anzitutto a far tesoro del proprio tempo. Perché la vera differenza fra lo schiavo e l’uomo libero non è nella fatica del proprio lavoro, ma lo scopo per cui lavora: l’uomo libero, a differenza dello schiavo che appartiene ad altri, lavora per sé. L’uomo libero ha un progetto, lo schiavo no. Per attuare questo progetto, il nostro tempo è sacro.

2) Libertà di avere una famiglia

Mishnah Ghittin 4, 5: Chi è per metà schiavo e per metà uomo libero, secondo la Scuola di Hillel serve il suo padrone a giorni alterni. La Scuola di Shammay obiettò: “Così avete sistemato il padrone, ma non lo schiavo: questi infatti non può più sposare una schiava, perché per metà è già uomo libero, ma neanche una donna libera, perché per metà è ancora schiavo. Deve astenersi dal procreare? Ma non è scritto che “D. ha fatto la terra affinché fosse abitata?” (Isaia 45, 18)? Che si obblighi anche il secondo padrone a liberarlo del tutto, rendendo lo schiavo ben chorin, e questi gli firmerà un assegno per metà del suo valore”. La Scuola di Hillel allora cambiò opinione, adottando quella della Scuola di Shammay”.

“Il matrimonio è più che un’istituzione atta a soddisfare particolari esigenze di tipo personale e sociale. Il matrimonio eleva la persona: viene a stabilire una relazione spirituale… Solo chi è padrone di se medesimo, un ben chorin, può mettersi in rapporto con l’altro in libera reciprocità. Lo schiavo non è ovviamente libero di agire e non potendo esercitare questa iniziativa non può neppure sposarsi. Il sacrificio pasquale dell’agnello richiede l’unità della famiglia: “un agnello per ogni famiglia, per ogni casa” (Esodo 12, 3). Già prima del sacrificio ogni Ebreo era cosciente di essere parte di un gruppo e questo senso di appartenenza costituisce un’esperienza di libertà. Il matrimonio non è fatto per una personalità schiava” (J. Soloveitchik, op. cit., p. 212-213).

3) Libertà di detenere proprietà

Mishnah Ghittin 1, 6: Colui che dice (a un delegato): “Dai questo atto di divorzio a mia moglie o questo documento di liberazione al mio schiavo”, se nel frattempo decide di recedere lo può fare in ambo i casi: opinione di R. Meir. I Maestri dicono invece che può recedere solo rispetto al divorzio, ma non rispetto alla liberazione dello schiavo, perché è lecito agire a beneficio dell’interessato in sua assenza (contando sulla sua accettazione), ma non a suo detrimento finché l’interessato non è presente. Se infatti durante la relazione decidesse di troncare gli alimenti allo schiavo lo può fare (costringendolo a lavorare vivendo di elemosina), ma non gli è lecito revocare gli alimenti alla moglie. Pertanto annullare il divorzio è un beneficio per la moglie che altrimenti perde gli alimenti del marito; invece annullare la liberazione dello schiavo va a suo detrimento, perché lo schiavo è proprietà del padrone (e “ciò che acquista lo schiavo, lo acquista il padrone”).

“Uno dei principi della fede ebraica afferma che “D. possiede il cielo e la terra” (Genesi 14, 20). E’ D. che “ti concede la terra per possederla” (Deuteronomio 19, 14)... Diritti di proprietà che agli esseri umani è dato acquisire sono dunque sempre soggetti all’autorità Divina. Questa autorità Divina irrevocabile non trova espressione migliore che nella legge relativa al “sabato della terra” e al Yovel” (Haim Cohn, Human Rights in Jewish Law, Ktav, New York, 1984, p. 87). “C’è chi vuole dimostrare l’esistenza di una tendenza socialista nel diritto ebraico attraverso l’istituto del Yovèl (“Giubileo”), per cui “la terra non verrà venduta perpetuamente, perché la terra è Mia e voi siete solo residenti temporanei” (Levitico 25, 23), ma è vero il contrario: dal momento che la proprietà originaria è vista come permanente e assoluta, la rivendita di essa a terzi non può che essere a sua volta temporanea”… Cionondimeno, benché il diritto ebraico non opti per l’abolizione della proprietà privata, la limita secondo criteri di giustizia” (Moshe Avigdor Amiel, Ethics and Legality in Jewish Law, The Rav Amiel Library, Gerusalemme, 1992, p. 94-95). “Quanto allo schiavo, Maimonide raccomanda: sebbene la legge permetta di trattarlo con rigore, vie di pietà e di saggezza insegnano che si deve comunque essere misericordiosi e attuare la giustizia, evitando di creare un bordone pesante per lo schiavo e farlo soffrire. Si deve dargli da mangiare e bere i migliori cibi e bevande; non si deve imbarazzarlo né con azioni, né con parole, evitando ogni tensione: ci si deve rivolgere a lui in modo gentile e ascoltare le sue lamentele” (op. cit. p. 116). 

4) Libertà di parola

Lo schiavo è inabile a testimoniare.

“La testimonianza di uno schiavo è indegna di fede per due ragioni: perché il suo concetto di verità è distorto e perché vive in un perenne stato di intimidazione. Uno schiavo è un uomo senza scelte: non può manifestare le proprie decisioni che in campi marginali, di conseguenza il suo giudizio, in questioni importanti, non è da prendere in considerazione. Egli non è in grado di sviluppare fiducia nel proprio giudizio personale perché non ha mai affrontato da solo la realtà: non ha potuto apprendere dai propri errori e pertanto non è in grado di alimentare la sicurezza in sé stesso o di raffinare la propria sensibilità. Solamente l’uomo libero è continuamente messo alla prova dalle molteplici possibilità inerenti ai vari aspetti della vita. Coloro che sono limitati nelle loro scelte e nella partecipazione tendono a sviluppare delle illusioni…, posseggono dei parametri falsati e sono circondate da un senso di astrazione. Rendere testimonianza implica l’esercizio del giudizio, l’attenzione alle sfumature, una capacità di percezione ed un’ampiezza di vedute: tutte qualità che mancano a uno schiavo. E’ da aggiungere inoltre che lo schiavo vive in una costante condizione di paura, perché è soggetto all’arbitrio del padrone e il suo stato di ansia persiste anche nei momenti in cui non è direttamente minacciato o soggetto a intimidazione… I prigionieri dei campi di concentramento riferivano di essere diventati docili, prontamente sottomessi e finanche timorosi di possedere dei giudizi personali: il consenso si affermava in modo automatico. L’uso di sedersi reclinati durante tutto il rituale del Seder è inteso a dimostrare la nostra liberazione dalla schiavitù e dai disagi che essa comporta… Con questo dimostriamo un cambiamento di situazione: dalla soggezione dello schiavo alla condizione tranquilla dell’uomo libero, dalla schiavitù alla libertà” (J. Soloveitchik, op. cit., p. 208-209).  

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