da Il Foglio, 11 dicembre 2008
Ankara. Il presidente della Turchia, l’islamico Abdullah Gül, si recherà presto in Israele e la notizia occupa un grande rilievo sulla stampa israeliana e turca. La visita infatti conferma un successo dell’Amministrazione Bush: la guerra contro Saddam Hussein era finalizzata a “esportare in Mesopotamia l’islam democratico turco”, come teorizzò Paul Wolfowitz, e oggi la Turchia ha fatto molti passi in questo percorso. E’ saldamente alleata del Kurdistan iracheno, in cui investe miliardi di euro e il governo degli islamici Recep Tayyp Erdogan e Gül ha ulteriormente rafforzato i suoi legami diplomatici, politici, economici e militari con Baghdad, oltre che con Gerusalemme. Tanto che quando il presidente israeliano, Shimon Peres, arrivò ad Ankara il 17 novembre del 2007, parlò davanti all’Assemblea nazionale ricevette la standing ovation dei 550 parlamentari turchi, straordinario caso di omaggio a un leader israeliano da parte del Parlamento di un paese musulmano governato da un partito islamico. La visita di Gül a Gerusalemme, in realtà, avrà un peso di rilievo in tutta l’agenda internazionale del 2009, soprattutto a Washington. L’intenzione di Barack Obama di aprire una fase negoziale con l’Iran (martedì seccamente rimandata al mittente dal cosiddetto “moderato” Ali Akhbar Rafsanjani) spinge la nuova Amministrazione americana a chiedere alla leadership turca di svolgere un ruolo di mediazione con Teheran. La Turchia, infatti, occuperà nei prossimi due anni un seggio nel Consiglio di sicurezza e gode oggi di una posizione di prestigio nel mondo musulmano: detiene infatti la presidenza dell’Oci, l’organizzazione dei paesi musulmani, ed è interessata a eccellenti relazioni col confinante Iran da cogenti ragioni petrolifere e geopolitiche. La politica russa di Vladimir Putin e di Dmitri Medvedev continua a creare frizioni con Ankara (come quella sovietica) e il premier turco, così come il presidente, sono obbligati a una politica energetica indirizzata verso l’Iran. Ma proprio sul dossier iraniano, sinora, si sono manifestate le più grandi distanze tra Gerusalemme e Ankara. Erdogan e Gül temono che le sanzioni dell’Onu facilitino la presa dei fondamentalisti a Teheran e auspicano un’attenuazione per favorire il cosiddetto blocco “riformatore” iraniano alle presidenziali di Teheran del giugno del 2009. Israele, invece, ritiene che la scelta atomica militare iraniana sia ormai irreversibile, anche perché è condivisa da tutte le fazioni del regime, salvo sbavature marginali. Da qui l’urgenza dei colloqui – che si terranno addirittura prima le elezioni israeliane, in tempo per avere impatto sui primi passi dell’Amministrazione Obama – in cui Peres può giocare una carta “segreta” di rilievo. Israele può offrire a Gül un aiuto prezioso sul terreno scabroso del cosiddetto “genocidio armeno”. Obama, in campagna elettorale, si era esposto sul tema, ma Israele può ora fare pressione perché receda sui suoi passi, forte dell’ospitalità che offre a Gerusalemme all’unico museo del mondo del massacro degli armeni. Gül e Erdogan, peraltro, hanno già proposto alla Repubblica armena una via d’uscita, che può essere rafforzata da una personalità come Peres: una commissione congiunta di storici che “appuri” (questa la versione turca) che vi fu un massacro immane (che la Turchia non nega più, finalmente) ma che non fu “genocidio”, bensì pulizia etnica, differenza fondamentale per l’onore militare e politico della Turchia.
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