5 febbraio 2009
L’antisionismo come arma politica fa parte di una precisa strategia diplomatica ed ha inizio più di trent’anni fa. Nel novembre del 1975 l’Assemblea Generale delle Naizoni unite approva la risoluzione 3379 che equipara il sionismo al razzismo. L’analisi dei voti rende chiaro come il blocco arabo e musulmano appoggiato dal blocco sovietico e dalla quasi totalità del movimento dei non-allineati si siano schierati contro Israele. Questa risoluzione segna l’inizio della Guerra diplomatica contro Israele preordinata a delegittimare lo stato ebraico minando il suo fondamento ideologico, cioè il sionismo. Dopo le due fasi di rivolta nella Palestina mandataria negli anni ’20 e ’30 e dopo le tre guerre di distruzione del 1948, del 1967 e del 1973, Israele continuava ad esistere come forza economica e militare crescente, pertanto gettando nello sconforto gli stati arabi che avevano più volte tentato di distruggere Israele per mano militare. Si è dovuto questo cambiamento di strategia alla necessità pregnante di annientare in un qualche modo Israele, primo obiettivo nell’agenda politica delle ideologie pan-arabiste e pan-islamiche, scopo che chiaramente non poteva esser raggiunto attraverso le operazioni di guerra.
La risoluzione è rimasta in vita fino al 1991, quando la proposta di revoca è stata finalmente accolta e votata col favore dei paesi non-allineati e dell’ex blocco sovietico. Contrarii sono rimasti gli stati arabi, con la sola eccezione dell’astensione dal voto dell’Egitto, che nel frattempo aveva firmato una pace con Israele (il che gli era valsa l’espulsione dalla lega araba e la rottura dei rapporti diplomatici con diversi stati islamici, tra cui l’Iran). Tuttavia, questa guerra diplomatica contro Israele negli anni successivi alla revoca della risoluzione del 1975 ha assunto altre forme e si è propagata per altre vie. Negli anni ’90 la delegittimazione di Israele è stata declinata secondo le logiche della grammatica dei diritti umani. Prima nel 1994, con la firma della carta araba dei diritti umani, il cui primo articolo annuncia la lotta contro ogni forma di colonialismo, razzismo e sionismo; e successivamente nel 2001 a Durban, dove in occasione della conferenza mondiale patrocinata dall’ONU contro il razzismo, la xenofobia e ogni forma di discriminazione, i tavoli di discussione si sono trasformati in teatri di infame antisionismo e antisemitismo. Non solo le organizzazioni israeliane sono state escluse dai lavori, bensì sono state allontanate tutte quelle organizzazioni di stampo ebraico e tutti quei partecipanti di dichiarata confessione ebraica. Inoltre la carta araba ha di recente sollevato discussioni al Consiglio per i Diritti Umani per incompatibilità con la risoluzione del 1991 che revocava quella del 1975 e altre incompatibilità concernenti la libertà religiosa (basti sapere che ogni forma di conversione ad altra religione è interpretata nell’Islam come apostasia).
L’antisionismo del pacifismo e della giustizia internazionale ha pervaso il modo di pensare anche scientifico. Qualsiasi studio giuridico, storico o politico che difenda Israele o che ne faccia valere le ragioni è tacciato di partigianeria e di inettitudine metodologica. In più l’antisionismo della giustizia ha pervaso così tanto l’opinione pubblica da suscitare moti di popolo contro i media accusati d’esser asserviti ad Israele nel caso in cui siano leggermente più obiettivi. Con riferimento all’ultima occasione di conflitto nel Vicino Oriente si possono tracciare delle chiare linee politiche antisioniste in almeno tre filoni: quello internazionale, quello interno e quello europeo.
Gaza e l’antisionismo
La guerra contro Hamas da poco conclusasi è scoppiata il 27 dicembre dello scorso anno in occasione delle ripetute violazioni della tregua concordata tra Hamas e Israele nel giugno 2008. Dato l’intensificarsi dei lanci di razzi ad opera di Hamas nel sud di Israele, il governo israeliano ha deciso, spalleggiato da un’opinione pubblica di rado così compatta, di lanciar un’offensiva aerea seguita da un’offensiva di terra iniziata il 3 gennaio. Dal punto di vista israeliano l’attacco armato a Hamas è una strategia di breve-medio periodo preordinata alla diminuzione del potenziale militare di Hamas. Sia il governo sia gli strateghi militari sono unanimi nel sostenere che questa guerra ha raggiunto gli obiettivi che si era proposta, riabilitando il morale della popolazione e dell’esercito gravemente incrinato in occasione della disorganizzazione nella seconda guerra in Libano. Sono stati attaccati i tunnel del contrabbando, gli arsenali di missili, è stata incrinata la dirigenza di Hamas e a parere di Israele si sono limitate al massimo le perdite di militari e di civili. Ed è questo il punto di maggior attrito nel diabttito contemporaneo sul conflitto arabo-israeliano. Si possono dunque analizzare i tre punti di vista principali: quello internaizonale, quello europeo e quello interno.
Da un punto di vista del diritto internazionale l’uso della forza è stato limitato dopo l’entrata in vigore della carta delle Nazioni Unite a sporadici casi, fra i quali quello dell’autodifesa. Uno stato ha diritto di utilizzare la forza se subisce un attacco da un altro stato. La discussione fondamentale sul terrorismo rimane proprio in questo aspetto del diritto. Molte volte è impossibile attribuire un attacco direttamente ad uno stato quando è compiuto da un’organizzazione terroristica che si appoggia ad uno stato (per esempio è stato discusso il legame tra Afghanistan e Al Qaeda). Con Hamas però i dubbi sono fugati dalle elezioni del gennaio 2006 che hanno portato al trionfo Hamas che in seguito ha consolidato il potere eliminando gli oppositori politici. Il secondo aspetto del diritto internazionale si concentra sulle modalità di combattimento regolate dalle convenzioni dell’Aja e di Ginevra. La base da cui muovono le norme è il principio di distinzione tra civili e combattenti per cui questi ultimi devono portare divise, vessilli, armi in vista. Inoltre le norme si concentrano sul trattamento dei civili che devono esser risparmiati, così gli arsenali devono esser tenuti lontani dai luoghi sensibili, i luoghi civili non possono esser teatro di guerra ecc. Tutte norme che Hamas per prima non rispetta, costringendo l’esercito israeliano ad uno scontro casa per casa con l’inevitabile perdita di non-combattenti. Infine secondo il diritto internaizonale ogni risposta ad un attacco dev’essere proporzionale. Il principio di proporzionalità non riguarda il bilancio di morti da una e dall’altra parte, bensì riguarda il danno subito e la potenziale minaccia dell’aggressore. La proporzionalità non è basata sulla legge delle lance (di orgine africana per cui in guerra ogni tribù aveva diritto ad uccidere il numero di nemici corrispondente alle eprdite inflitte dal nemico), bensì si basa sul danno reale e danno futuro per cui rispondo all’attacco per impedire ulteriori danni in futuro.
Spostandosi ora sull’analisi politica della guerra e delle reazioni che ha scatenato ci si può concentrare sul piano europeo e su quello interno.
L’Europa, che avrebbe potuto giocare un ruolo fondamentale in questo scenario, è stata come al solito impotente. L’impotenza è dovuta all’incapacità di coordinare le politiche estere dei singoli Stati e gli ineffettivi poteri dell’istituzione comunitaria preposta alla politica estera. In Europa infatti si possono individuare perlomeno tre direzioni. Due di queste sono fisse: la Francia è sempre filoaraba, prima per convinzioni politiche, ora per il timore di rivolte interne che i cinque milioni di musulmani potrebbero scatenare nelle città francesi; mentre la Germania rimane filoisraeliana, e per ragioni storiche che vincolano la quarta potenza mondiale a difendere lo stato ebraico sia per maturate convinzioni politiche (il discorso di Angela Merkel in ebraico alla Knesset non è di certo una mera occasione di facciata per affermare la vicinanza dei due popoli, bensì un atto politico dalle rilevanti conseguenze che lega la Germania ad Israele). Vi sono altri stati come l’Italia che cambiano orientamento a seconda del governo. In quest’occasione l’Italia è filoisraeliana in quanto al governo vi è il centrodestra. Ad ogni modo, le prese di posizione cosiddette filoisraeliane si limitano ad indicare come la risposta di Israele sia stata causata dalle folli azioni di Hamas che persegue l’unico scopo di distruggere lo stato ebraico, restando ferme le critiche sulle modalità di combattimento e le condanne per la perdita di civili. Il che ci fa spostare l’attenzione sulla politica interna.
Nella politica interna italiana l’esser di sinistra è l’etichetta fondamentale per appartenere a determinati circoli e per vedere accettate le proprie idee. In un clima ideologico dominato dalla sinistra coloro che desiderano dialogare tengono prima a precisare di esser di sinistra per non esser gettati nella spazzatura della società per poi sostenere flebilmente tesi che divergono dalla vulgata di partito. Tale ideologia imperante è vittima di una visione del mondo ormai superata (USA v. URSS – imperialismo v. Libertà), per cui la considerazione di Israele, come di una fittizia creazione imperialista sostenuta oggigiorno dagli Stati Uniti crea un malanimo di fondo che impedisce ogni visione obiettiva sulle questioni del vicino oriente. Finite le ere dei grandi proclami antimperialisti quelle poche situazioni che rassomigliano alle epoche della decolonizzazione e delle lotte in piazza per vendere il caffè del Nicaragua sono state prese sotto l’ala protettrice della sinistra che ha trovato di nuovo i poveri per cui combattere. Più che altro lo fa per istinto di sopravvivenza proprio e non per finalità filantropiche, visto che questa lotta ideologica rimane l’unica fiaccola di vitalità di una sinistra allo sbando che salvo il comune nemico Berlusconi nulla ha più da proporre. Inoltre mancano completamente le finalità filantropiche in quanto ai palestinesi non è che si guardi con occhio solidale (ad esempio agendo sulle situazioni sociali di completo degrado quali la violenza sulle donne, sui bambini, sui cristiani ecc.).
Hamas la sinistra e il nazismo
In particolar modo è incomprensibile come in nome di un trito terzomondismo la sinistra si ostini a sostenere posizioni del tutto contrarie alla sua base ideologica. Nei dibattiti su Gaza si ammette sempre la criminosità di Hamas, ma lo si giustifica per via delle elezioni. Inoltre lo si giustifica in quanto fenomento conseguente all’occupazione israeliana, alla miseria e alla disperazioni. Entrambe le tesi sono insostenibili.
Il fondamentalismo islamico non è una scelta conseguente a miseria o disperazione, ma un dilagare ideologico che affonda le proprie radici nel Settecento, con la nascita dell’ideologia wahhabita in Arabia Saudita, con il dilagare della scuola islamica salafita e soprattutto con la grande rivoluzione iraniana che ha portato il clero sciita solitamente distante dalle questioni politiche a cercare di prender le redini della leadership islamica mondiale coi diversi tentativi di esportare la rivoluzioni fomentando il terrorismo. Inoltre il fondamentalismo islamico ha dei tratti spiccatamente antisemiti, in quanto per tradizione coranica gli ebrei sono causa di discordia e conflitto (dalla battaglia contro la tribù ebraica dei Banu Quraiza che aveva resistito a Medina all’attacco dei maomettani). Il fondamentalismo islamico è un fenomeno globale dall’India alla Palestina, dal Pakistan al Marocco, dall’Algeria all’Uzbekistan, dall’Egitto alle regioni islamiche della Cina comunista.
La seconda tesi è altrettanto insostenibile. Si è soliti fare il paragone con Hitler che pure è stato democraticamente eletto per poi instaurare un regime totalitario di stampo razziale. Politici come D’Alema, la Morgantini ed altri fini pensatori ritengono che il paragone non possa reggere. Tuttavia un’attenta analisi dei due movimenti da un punto di vista di teoria politica può riavvicinarli più di quanto si creda.
Hamas è un movimento totalitario nichilista pari al nazismo. E’ un movimento anzitutto antidemocratico che si è fatto strada con slogan populisti legati alla giustizia sociale per combattere il nemico interno corrotto ed instabile (Arafat e i suoi successori), con una campagna mediatica che incita all’odio antiebraico ed antioccidentale, con una campagna sociale che ha trasformato i bambini in soldati ed infine con la violenza concretizzata in esecuzioni di piazza contro i collaboraizonisti. E’ un movimento nichilista che ha come scopo l’annientamento del nemico individuato progressivamente come l’oppositore politico, l’infedele, l’ebreo, il sionista, il cristiano, l’americano, l’apostata ecc. Dapprima ha sbaragliato al Fatah trucidandone i membri, poi ha instaurato la legge islamica per annullare ogni traccia di moderazione, laicismo e diversità religiosa, ed ecco che si concentra sull’annientamento di Israele. Così era anche il nazismo che si è fatto strada in politica con slogan populisti promettendo pace e prosperità alla popolazione, con la violenza di piazza e con l’individuazione progressiva del nemico come il comunista, l’ebreo, lo zinghero, l’omosessuale e sarebbe arrivato anche al cardiopatico. Così come il nazismo era un movimento metastorico che concepiva la storia come una lotta di razze che sarebbe terminata col trionfo della razza ariana sulle altre, così il fondamentalismo islamico concepisce la storia come una lotta di religioni che terminerà col trionfo dell’Islam sulle altre. Infine così come il nazismo, anche hamas riesce a porre in pratiche tattiche che hanno ad effetto lo spostamento delle colpe sulle vittime. I consigli ebraici e i consigli degli zingari ignari di ciò che stavano facendo redigevano liste di ebrei e zingari che servivano a facilitare la deportazione e lo sterminio; così hamas costringe Israele alla guerra facendo sì che sia inevitabile creare vittime civili la colpa del cui assassinio ricade su Israele che combatte Hamas in un campo di battaglia urbano. A Gaza Hamas si fa scudo dei civili, nell’arena internazionale si fa scudo delle ideologie democratizzanti terzomondiste che paiono non aver più forza politica dettata dallo spirito di giustizia quanto invece sembrano esser saldamente vincolate a sterili legalismi e ridicole formalità politiche.
Tanto più grave appare che l’appoggio a Hamas arrivi da movimenti libertari quali quelli femministi che avevano fatto della libertà sessuale e della parità uomo-donna il proprio fiore all’occhiello nella lotta contro il conservatorismo e l’oppressione religiosa nel secolo scorso. Un appello andrebbe rivolto a queste femministe libertarie che appoggiano il findamentalismo islamico. Con quale coscienza si tende una mano ad un movimento che propugna principii tra i più nefasti per le donne? Inoltre appare ancor più grave che il dibattito sia intriso di episodii di violenza e vandalismo contro quegli operatori mediatici accusati di parzialità in favore di Israele quando hanno serenamente ammesso le brutalità di Hamas. La vernice ed i manichini lanciato contro le sedi di Repubblica e la Rai sono il segnale di una società allo sbando completamente acciecata dall’ideologia che non nutre alcun sentimento verso la verità bensì si inalbera quando i fatti non corrispondono agli schemi ideologici.
Infine l’insistenza sulla necessità del dialogo con Hamas è ridicola quanto gli altri slogan di pace e gli appelli per condannare gli israeliani di crimini contro l’umanità. Sulla ricerca del dialogo e la necessità di contrattare con la parte in conflitto vi è da dire che le possibilità dei negoziati permangono finché vi sono interessi da difendere. Quando l’interesse di una delle parti è il dominio assoluto su una zona e l’annientamento del nemico che passa attraverso forme di de/umanizzazioone (figli di porci e scimmie sono gli ebrei e i cristiani), ogni possibilità di dialogo è completamente inutile, priva di senso, controproducente. Il valore degli interessi delle parti è sostanzialmente differente: se una vuole risolvere il conflitto l’altra ne vuole la totalizzazione. Manca cioè una qualsiasi base comune al confronto. Ogni tregua contrattata è un semplice modo di riorganizzazione per la massimizzazione del potenziale distruttivo, mentre ogni tregua unilaterale diviene un esempio di debolezza che incita all’intensificazione del conflitto. I consigli ebraici cercavano di contrattare coi nazisti, ma non c’era proprio base comune su cui contrattare. I russi l’hanno fatto coi nazisti, ma i patti Molotov-Ribbentrop erano vuoti come tutte le categorie politiche del tempo che non riuscivano a descrivere la vera realtà: una potenza ideologica che tentava di portare a termine la missione dominatrice della razza ariana. Così è ogni hudna di Hamas, una tregua, peraltro mai in fondo rispettata, per riprendere i combattimenti.
Conclusione
La difficoltà di inquadrare gli eventi, la miopia delle analisi del conflitto, la violenza di piazza scatenata da facinorosi sostenitori della pace trovano cittadinanza in un mondo intriso di antisionismo e in un mondo cui mancano delle categorie politiche e giuridiche nuove.
Il deliberato antisionismo, la precisa volontà di attaccare Israele mascherando l’odio da pacifismo e da solidarietà verso i palestinesi finiscono per acuire il conflitto e per aiutare la scalata del fondamentalismo. Tale antisionismo arriva ad esser aperto antisemitismo lì dove in occasione della giornata della memoria si privano gli ebrei del diritto di ricordare e si sollevano gli altri europei dell’onere di ricordare quanto accaduto. La situazione odierna è assai simile al processo Dreyfus: c’è chi è pro e c’è chi è contro, così come con Israele. Ma chi è contro coglie di nuovo l’occasione per cavalcare dei miti antisemiti attingendo largamente all’immaginario antisemita cristiano (per citare solo due esempii: la vignetta che indicava il carro armato con la canna puntata contro Maria e bambino e la scritta “mi vuoi uccidere ancora?” in occasione dell’assedio della Chiesa della Natività a Betlemme, e l’equiparazione degli Israeliani al re Erode che si racconta avrebbe fatto uccidere tutti i primigeniti per non permettere a Gesù di Nazareth di diventare re dei Giudei). E’ come se finalmente si potesse esser antisemiti, finalmente ci si potesse scagliare contro gli ebrei senza alcuna accusa di razzismo. Anzi, questo antisemitismo è una nuova declinazione dei diritti umani!
In secondo luogo la teoria politica manca di un’adatta categoria che possa descrivere ed inquadrare lo stragismo islamista. Il culto della morte, la fioritura del martirio stragista, il disinteresse verso la vita sono disvalori a noi misconosciuti. Nella tradizione cristiana il martirio è passivo, ossia è l’estremo atto di fede di chi non cede alle torture e alle minacce e rimane saldo sulle proprie convinzioni fino all’estremo atto di dare la vita per esse. La tradizione ebraica è tutta orientata verso la vita tanto che in caso di pericolo di vita si possono contravvenire altre norme, per esempio quelle dello shabbath nucleo fondante l’identità ebraica. Questo tipo di nichilismo alla base dell’ideologie islamiste che fanno della vita solo uno strumento di morte coinvolgendo donne e bambini da sempre considerati i soggetti più deboli e degni di speciali protezioni è a noi totalmente estraneo; l’impiego della vita per causare distruzione e morte, per dilagare terrore e disperazione, per costringere alla disfatta è un impiego politico della vita che non è per noi concepibile in quanto invece da sempre tutelata come valore supremo. Così come all’inizio del Novecento non si comprendeva bene il pericolo fascista, nazista e sovietico perché ancora non vi era la categoria politica del totalitarismo, così ora parte di quell’opinione pubblica antiisraeliana non comprende la situazione per la mancanza di un’altra categoria politica: lo stragismo nichilista, intriso di odio e propaganda religiosa e politica.
Una famosa scrittrice assai impopolare alla fine dei suoi anni spronò a riacquistare la forza della ragione unica via d’uscita ad una situazione talmente melmosa da evocare solo immaginarii disperati. Mentre una figura politica assai popolare disse che “la pace con gli arabi ci sarà solo quando ameranno i loro bambini più di quanto odiano noi”.
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