24 febbraio 2009
Nel novembre del 2008 la Cina ha varato un piano da 4 trilioni di yuan (pari a 586 milioni di dollari) per contrastare la crisi economica che ha duramente colpito l’economia del paese.
Il piano comprende opere infrastrutturali, tagli alle tasse e programmi per la creazione di nuovi impianti di energia pulita e per lo sviluppo delle aree rurali.
Negli ultimi mesi il governo ha continuato a ripetere che la Cina dovrà ridurre la dipendenza dalle esportazioni e concentrarsi maggiormente sui consumi interni. Ma al momento all’interno del partito imperversa una lotta sulla strategia da adottare nell’immediato futuro per rilanciare l’economica del paese.
Esistono principalmente due linee di pensiero:
· Una prima teoria indica nello sviluppo delle aree rurali la via da seguire per il miglioramento della situazione economica, perché solo attraverso lo sviluppo delle aree arretrate sarà possibile raggiungere un certo equilibrio nel paese e stabilizzare l’economia;
· Secondo un’altra teoria invece occorre investire il denaro sulla costa, più ricca e quindi capace di far ripartire l’economia attraverso il commercio – poiché la popolazione delle aree rurali, per quanto possa arricchirsi e crescere grazie agli investimenti statali, non dispone comunque del denaro necessario da investire per sostenere il rilancio.
Nell’ultimo periodo sui media cinesi sono comparsi numerosi articoli riguardanti la strategia che il governo dovrebbe adottare in futuro per contrastare la crisi. Date le restrizioni che normalmente sono imposte alla stampa,
si può intuire che il vero dibattito stia avvenendo all’interno del Partito Comunista e che i giornali riflettano le lotte intestine.
Le decisioni normalmente in Cina vengono prese dal presidente e dal primo ministro, rispettivamente Hu Jintao e Wen Jibao, anche se non posseggono più il potere dei loro predecessori - come Mao Tse Tung o Deng Xiaoping. Al giorno d’oggi devono tenere conto dell’opinione delle diverse frazioni presenti all’interno dell’elite cinese.
Le due principali correnti di pensiero sono rappresentate dal vicepresidente Xi Jinping e dal vicepremier Li Keqiang.
Xi, che segue le orme di Hu, sostiene la necessità di aumentare il controllo del governo centrale sull’economia a scapito dei poteri locali e di consolidare l’industria cinese attraverso l’urbanizzazione e lo sviluppo delle aree rurali del paese.
Li invece, ispirandosi alla politica degli ex presidenti Jang Zemin e Deng Xiaoping, ritiene che le attività economiche debbano essere svincolate maggiormente dal controllo statale e che il denaro debba essere investito sulla costa, che in futuro potrebbe diventare il motore per lo sviluppo delle aree interne.
In verità questo è un problema di vecchia data.
La necessità di trovare un equilibrio fra l’economia commerciale della costa e l’economia quasi interamente agricola dell’interno ha fatto arrovellare i leader cinesi per anni. La regione costiera, più piccola e più ricca, ha molti legami con l’estero, mentre la parte interna è piuttosto isolata ed è spesso colpita da moti di instabilità sociale e rivolte, specialmente nei periodi di crisi.
Le riforme economiche avviate da Deng Xiaoping alla fine degli anni ’70 hanno provocato un ridimensionamento dell’autorità centrale a favore delle leadership regionali e locali. Da allora le provincie costiere, che basano la propria economia sul commercio e sulle esportazioni, sono divenute il centro dell’attività economica e del potere della Cina. I ripetuti tentativi del governo centrale di riappropriarsi almeno di una parte del potere perduto sono stati costantemente ignorati negli ultimi anni.
Con l’insediamento di Hu Jintao le spinte per una maggiore centralizzazione si sono fatte più insistenti e il governo ha adottato una politica favorevole ad un riequilibrio fra la costa e l’interno. Ma questo processo ha subito una battuta d’arresto nel luglio del 2008, in seguito all’aumento del costo del carburante e della crescente inflazione.
Dopo lo scoppio della crisi finanziaria nell’autunno scorso il governo ha varato un piano che riflette le due tendenze presenti all’interno del partito, indirizzando una parte del denaro verso le zone costiere e investendone un’altra parte a favore dello sviluppo delle aree rurali.
Le varie fazioni in ogni caso sono interne al Partito Comunista e non ne contestano l’autorità né potere. Il principale problema che i leader cinesi devono affrontare al momento è il rischio di una rivolta da parte della forza lavoro immigrata nelle città, che potrebbe perdere il lavoro a causa della crisi economica.
Un’ondata di malcontento generale potrebbe mettere in crisi la struttura di potere del partito e destabilizzare il governo. È quindi probabile che le fazioni troveranno un compromesso.
Fonte: Strategic Forecast
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