Il 14 aprile 2009 le proteste hanno iniziato a scemare, gli organizzatori si sono arresi alla polizia e gli ultimi reduci hanno abbandonato l’area dei ministeri, fulcro delle manifestazioni che infiammavano il paese dal 26 marzo scorso. Nel frattempo la corte tailandese ha emesso un mandato d’arresto per l’ex primo ministro in esilio, Thaksin Shinawatra, e dodici dei suoi alleati, accusati di assemblea illegale, istigazione alla violenza e disturbo alla quiete pubblica.
Il Partito Democratico del Primo Ministro in carica, Abhisit Vejjajiva, sembra essere sopravvissuto quasi indenne nonostante le massicce proteste che chiedevano a gran voce le dimissioni del governo in carica.
Le manifestazioni, che avevano spinto alla cancellazione del summit dell’Associazione delle Nazioni del Sudest Asiatico (ASEAN), sono state sedate senza versare troppo sangue: 123 persone sono rimaste ferite e due individui sono morti nei tafferugli contro l’esercito a Bangkok.
Il governo, per non perdere di credibilità, doveva dimostrare ai vertici militari e alla monarchia di essere in grado di gestire la situazione.
Le “camice rosse”, appoggiate dalla popolazione delle province settentrionali e nordorientali, hanno comunque dimostrato al governo che l’opposizione esiste ed è capace di mettere a dura prova il governo - infatti i manifestanti hanno creato una certa dose di caos alimentando una protesta in grande stile.
Al di là delle ideologie,
la rivalità fra Bangkok e le province non accenna a diminuire e divide tutte le più importanti istituzioni del paese. La Tailandia con ogni probabilità si troverà ad affrontare una grave crisi quando il popolare monarca, l’anziano Bhumibol Adulyadej, morirà. Infatti vi sono tuttora molte incertezze sulla successione, che potrebbero scuotere ulteriormente le deboli fondamenta del sistema tailandese e alimentare un’ulteriore crisi politica.
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