21 maggio 2009
Il 13 maggio 2009 le autorità locali hanno scoperto alcune fosse comuni contenenti oltre 100 corpi nel lembo orientale della regione Diwaniya, nell’Iraq meridionale. I primi resoconti – basati sull’analisi dei vestiti e sullo stato di decomposizione – hanno rivelato che le vittime sono Curdi, principalmente donne e bambini, deportati dalle regioni settentrionali del paese e poi uccisi e seppelliti durante la campagna genocida di Anfal (1987-88).
Lunedì il Ministero dei Diritti Umani di Najaf ha deciso di riesumare i cadaveri da una fossa comune nel distretto di Qasadiya, nel deserto di Najaf. Le vittime stimate in questo caso sono
circa 3.000, soprattutto Curdi, ma si crede che nelle vicinanze vi siano anche alcune centinaia di Kuwuaitiani scomparsi durante l’invasione del Kuwait nel 1990.
A sei anni dalla liberazione dell’Iraq le autorità locali devono ancora dissotterrare decine di migliaia di vittime del regime di Saddam - solo nella provincia di Najaf ci sono 48 siti dove i corpi devono ancora essere riesumati ed identificati.
Finora sono state scoperte 400 fosse comuni in Iraq, i cui abitanti aspettano ancora di essere restituiti alle rispettive famiglie. In molti casi non esistono nemmeno tali famiglie desiderose di riavere i pochi oggetti dei loro cari, in quanto sono finite sotto terra a loro volta. E non vi è più nessuno ad organizzare un funerale decente, a scrivere un nome sulla lapide o a commemorare i defunti.
Dopo il 2003 i ribelli, sia che fossero di al Qaeda o ex Baathisti, si sono serviti della stessa tecnica di Saddam: sono infatti state scoperte da poco fosse comuni di origine più recente – l’ultima a Yusufiyyah, a sud di Bagdad, al cui interno giacevano i cadaveri di 20 persone, probabilmente vittime sciite dei jihadisti.
Gli Americani e il governo iracheno in questo caso hanno fallito perché non sono riusciti a trasmettere il senso di indignazione di fronte a crimini così orrendi. Non è ancora stato creato un museo per le vittime degli eccidi, e la medicina legale, che ha il compito di catalogare e identificare le vittime, non è stata finanziata adeguatamente. Anche le Nazioni Unite non hanno battuto ciglio.
Questo dipende anche dal cinismo e dall’apatia dei media occidentali, che hanno evitato di pubblicare questa vicenda: sul
New York Times, sul
Los Angeles Times e sul
Washington Post non è comparso nemmeno un articolo che parlasse di queste recenti scoperte. E sui giornali americani non sono nemmeno comparse le testimonianze dei due ex funzionari del regime di Saddam che la scorsa settimana, in occasione del processo, hanno confessato di avere ordinato un attacco chimico su Halabja nel 1988. Il governo degli Stati Uniti ha quasi cercato di insabbiare i crimini del regime di Saddam.
Per ora abbiamo sentito solo notizie sui fatti di oggi: sugli ex ribelli baathisti arrestati dal governo iracheno o sulle tensioni fra il consiglio baathista neoeletto a Mosul e la minoranza etnica curda della provincia. Questo mese
Vanity Fair pubblicherà un lungo reportage sulla difficoltà di coinvolgere i Baathisti nel processo politico iracheno.
Ai Baathisti viene dedicato un ampio spazio mentre le vittime dei loro crimini sono dimenticate. Negli ultimi tre anni l’America ha cercato di riportare sulla scena politica i Baathisti parchè si pensava che solo attraverso una pacificazione con i killer di ieri e di oggi sarebbe stato possibile interrompere i massacri. Mi chiedo davvero quanto sia freddo il deserto di Najaf, dove di notte vagano centinaia di spettri alla ricerca di un po’ di giustizia – e aspettano, aspettano, aspettano…
Non mi stupisce quindi che l’opinione pubblica dell’Europa e degli Stati Uniti nutra molti dubbi sull’etica di questa guerra.
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