A distanza di quasi cinque anni, questo articolo di Valentina Colombo del 2009 rivela la lucidità della sua comprensione. Per questo lo ripubblichiamo oggi.
Quattro giugno, una data cruciale per Barack Obama. Il sito dell’ambasciata americana al Cairo annuncia questo viaggio del presidente in Egitto come l’occasione di «tenere un discorso sulle relazioni tra l’America e il mondo musulmano» per un leader «ansioso di continuare il dialogo con il presidente Mubarak». Obama dunque non si rivolgerà solo al mondo arabo né solo al Medio Oriente, bensì all’intero mondo musulmano, un miliardo e trecento milioni di persone. Non a caso inizialmente come location dell’evento si era pensato all’Indonesia, il paese con il maggior numero di musulmani al mondo, dove peraltro il presidente americano ha trascorso qualche anno della sua infanzia. Però le questioni che più premono alla amministrazione Usa (terrorismo, democrazia, conflitto israelo-palestinese, Iraq, Pakistan e Afghanistan) riguardano solo da lontano quel paese. Di qui la scelta del Cairo, metropoli araba e punto di riferimento religioso per l’islam sunnita in quanto sede dell’università di al Azhar.
Ma non è la prima volta che Obama si rivolge al mondo arabo. Il 27 gennaio, a soli otto giorni dal suo insediamento alla Casa Bianca, ha rilasciato una lunga intervista alla rete satellitare araba al Arabiya. Ha esordito con un mea culpa: «Troppo spesso gli Stati Uniti hanno dettato le condizioni: è ora di ascoltare». Subito dopo, un accenno al tema più caldo per gli arabi: «Non possiamo dire né agli israeliani né ai palestinesi che cosa è meglio per loro. Tuttavia ritengo che i tempi siano maturi affinché entrambe le parti comprendano che la via che hanno intrapreso non porterà né a prosperità né a sicurezza per il loro popolo. Bisogna ritornare al tavolo dei negoziati».
Ma forse l’affermazione che richiede il maggior chiarimento da parte del presidente americano in vista del discorso del Cairo è la seguente: «Il mio impegno è quello di comunicare agli americani che il mondo islamico contiene molte persone straordinarie che vogliono semplicemente vivere la loro vita e sperare in una vita migliore per i loro figli». È vero infatti che il mondo islamico è fatto di popoli e persone molto diverse tra loro quanto a tradizioni, cultura, persino lingua. L’islam non è un monolite, ma troppo spesso l’Occidente finisce sempre per scegliere come propri interlocutori quei gruppi che si presentano come rappresentanti dell’islam con la i maiuscola al solo scopo di imporre la propria visione tirannica della religione.
Non è quindi un caso che il discorso del Cairo sia stato preceduto il 22 maggio da una lettera aperta a Obama di Radwan Masmoudi, direttore del Center for the Study of I-
slam and Democracy con sede a Washington, un testo sottoscritto da più di 1.300 rappresentanti del mondo arabo-islamico. Non è un caso nemmeno il fatto che la lettera sia stata indirizzata a Barack “Hussein” Obama, a sottolineare il legame naturale del presidente degli Stati Uniti con l’islam. Il testo, un appello per la promozione della democrazia in Medio Oriente, appare più che condivisibile, tanto da essere stato sottoscritto sia da studiosi occidentali, sia da intellettuali musulmani di ogni corrente di pensiero. Il primo paragrafo fa un esplicito riferimento all’intervista su al Arabiya: «La vostra presidenza rappresenta un’opportunità storica per avviare una nuova fase» nel «rapporto tormentato tra Stati Uniti e mondo musulmano. Siamo sollevati dalla vostra promessa di ascoltare e comprendere le speranze e le aspirazioni degli arabi e dei musulmani». Si elogia anche l’intento di volere raggiungere la gente, ma si pone al contempo una sorta di ultimatum: «Questo è un passo che deve essere seguito da concreti cambiamenti politici. (…) È cruciale che gli Stati Uniti si schierino storicamente dalla parte dei diritti umani, civili e politici delle popolazioni del Medio Oriente. Non c’è dubbio che queste ultime desiderino maggiore libertà e democrazia». Si critica poi l’atteggiamento titubante dagli Stati Uniti: «Per troppo tempo la politica americana in Medio Oriente è stata paralizzata dalla paura di un’eventuale ascesa al potere dei partiti islamici. Alcuni di questi timori sono giustificati e comprensibili; molti islamisti promuovono politiche tutt’altro che liberali. (…) Tuttavia la maggior parte dei principali gruppi islamisti nella regione non sono violenti e rispettano il processo democratico».
L’ascesa dei Fratelli Musulmani
Una frase, quest’ultima, che non è andata giù a molti commentatori che nel mondo arabo ci vivono e conoscono da vicino i suddetti gruppi islamisti. In un articolo pubblicato sul settimanale indipendente Rose el Yossef intitolato “L’estremismo che indossa i panni della democrazia”, il giornalista egiziano Karam Gabr ha scritto: «Gli arabi non si rendono conto del pericolo fino a quando non attenta alla loro strada, alla loro casa e alla loro camera da letto. Ma non si sono ancora resi conto della più recente invenzione, l’impiego della democrazia per riciclare l’estremismo e consentire agli estremisti di vincere le elezioni. È successo con i Fratelli Musulmani in Egitto e con Hamas in Palestina. Succederà con gli sciiti e i Fratelli Musulmani nello Yemen a marzo e poi in altri paesi». Anche il ministro dell’Interno egiziano Habib al Adly ha avuto modo di affermare: «L’ estremismo si nasconde dietro la religione per scalare il potere, sfruttando i mezzi legali e illegali con il pretesto della loro adesione alla democrazia. Dobbiamo riesaminare le regole prima che si ricrei un terreno fertile al terrorismo così come successe in passato». Il riferimento è agli anni Settanta, quando l’allora presidente Sadat favorì l’attività dei Fratelli Musulmani, provocando l’esplosione del terrorismo islamico di cui lui stesso infine rimase vittima.
Ma anche negli Stati Uniti non mancano voci dissonanti. Una è quella di Zuhdi Jasser, che nel 2002 ha fondato l’American Islamic Forum for Democracy (www.aifd.org). Jasser, musulmano nato e cresciuto in America, sottolinea l’importanza di promuovere la libertà, piuttosto che la democrazia. In occasione della celebre visita del presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad alla Columbia University aveva già lanciato un avvertimento: «Quel che l’Occidente non comprende è che la parola “democrazia” assume diversi significati, a seconda di chi lo usa e del contesto». Jasser ha ben presente, e in questo concorda con l’analisi di Masmoudi, che elezioni libere oggi nei paesi del Medio Oriente porterebbero al potere i peggiori nemici del processo democratico, e avanza una proposta precisa: «Invece di levare infiniti appelli alla democrazia si dovrebbero promuovere i rapporti con coloro che sono favorevoli a una repubblica rappresentativa limitata dalla costituzione».
Ma quali talebani moderati
Sono in molti in Occidente – gli Stati Uniti in prima fila – a sostenere che i Fratelli Musulmani dovrebbero partecipare al processo elettorale democratico, sia perché in questo modo dovrebbero adeguarsi alle sue regole, sia perché negli ultimi anni avrebbero modificato i loro obiettivi e oggi sarebbero disposti ad attuare la cosiddetta democrazia islamica. Nel marzo 2007 la rivista americana Foreign Affairs pubblicò un articolo a firma di Robert Leiken e Steven Brooke dal titolo “The moderate Muslim Brotherhood”. L’articolo era un concentrato della leggerezza e dell’ingenuità che impera in Occidente. I due autori ribadivano che il movimento ha diverse anime, tra cui alcuni esponenti che sono disposti a colloquiare con gli Stati Uniti, dimenticando che per i Fratelli Musulmani tutto è lecito, in primo luogo la dissimulazione, pur di raggiungere i loro fini. Ma di recente si è andati ben oltre. Il settimanale internazionale Newsweek è uscito con una copertina “verde islam” che recava un titolo in giallo, in arabo e in inglese: “L’i-
slam radicale è un dato di fatto. Come convivere”. All’interno un articolo del direttore Fareed Zakaria in cui si sosteneva l’esistenza di un islam radicale moderato quale quello dei talebani afghani, che no-
nostante la loro rigidità e brutalità in patria non hanno mai dichiarato un jihad all’Occidente. Con questi estremisti moderati, secondo Zakaria, si può dialogare. A qualche settimana di distanza la posizione di Newsweek è stata ripresa da Obama. Il quale però ben presto si è sentito rispondere da un capo talebano che loro non sono affatto moderati, né aspirano ad esserlo.
Insomma l’intenzione di Obama di parlare e ascoltare tutti resterà un wishful thinking finché la civiltà occidentale e quella musulmana non chiariranno cosa ciascuna intende per democrazia e moderazione. Un segnale positivo viene oggi dal Kuwait. Qui il 29 giugno 2006 le donne hanno potuto votare per la prima volta, ma pur rappresentando il 57 per cento dei votanti non hanno avuto la forza di eleggere rappresentanti del proprio sesso. Idem nel 2008, quando l’emiro ha cercato di porre rimedio all’accaduto nominando due donne ministro. Questa apertura alla parità tra i sessi ha mandato su tutte le furie la maggioranza conservatrice e radicale islamica in Parlamento, che ha provocato l’ennesima crisi di governo e ha portato alle elezioni anticipate, che si sono svolte poche settimane fa. È a questo punto che si è verificato il fatto inedito: lo spoglio dei voti ha registrato l’elezione di quattro donne e un calo degli islamisti. Ma da dove viene questa “svolta liberale”? Il Kuwait è un paese sui generis nel panorama musulmano, dove i numeri sono di enorme aiuto ai cambiamenti: l’emirato conta circa 2.700.000 abitanti di cui il 93,3 per cento alfabetizzati, e vanta un reddito pro-capite di tutto rispetto, pari a circa 57 mila dollari.
Purtroppo però basta confrontare queste cifre per esempio con l’Egitto scelto da Obama per il suo storico discorso e tutto diventa più difficile. Ci troviamo di fronte a un paese di 83 milioni di abitanti di cui solo il 71 per cento alfabetizzati. Le scuole primarie sfiorano in media l’ottantina di allievi per classe, il che porta le famiglie a rivolgersi altrove per l’istruzione. E in un paese dove il reddito pro-capite è di 5.400 dollari i giovani in cerca di educazione di certo non andranno ad affollare le costose scuole private internazionali, bensì le cosiddette madrasse, ovvero le scuole legate alle moschee che sono nella stragrande maggioranza gestite dai Fratelli Musulmani. Con il risultato che circa 25 milioni di giovani egiziani oggi sono educati all’insegna della bieca ideologia.
La vera emergenza
C’è bisogno di spiegare che cosa implica tutto questo per quanto riguarda il famoso processo di democratizzazione? L’Occidente, gli Stati Uniti in primis, dovrebbero avere il coraggio di investire sulle nuove generazioni arabe e musulmane, agire sui governi affinché vengano cambiati i curricula scolastici e i libri di testo e sia favorito lo sviluppo dello spirito critico indispensabile a creare nuove generazioni che guardino positivamente al futuro. Bisogna dichiarare l’emergenza educativa e pretendere una risposta dal mondo arabo-musulmano. Basti pensare che in Pakistan all’istruzione viene riservato il 2,6 per cento del Pil e in Egitto addirittura lo 0,2.
Il compito che spetta al presidente americano non è per nulla semplice. La situazione del mondo islamico in generale e del mondo arabo in particolare, sia dal punto di vista religioso sia dal punto di vista politico, è complessa e delicata. La tanto auspicata svolta democratica potrebbe portare al comando movimenti estremisti islamici che come ha affermato l’intellettuale liberale egiziano Adel Guindy non vanno ingenuamente considerati analoghi ai partiti democratici cristiani: è come paragonare «l’acqua all’acido solforico». Al contempo, però, sostenere i numerosi regimi tirannici attualmente al potere significa favorire sovrani che limitano la libertà di espressione. La speranza è che il 4 giugno Obama chiarisca che dialogo e collaborazione sono elementi fondamentali per un futuro migliore in Medio Oriente, ma tutto diventa un’inutile cerimonia se alla base non ci sono valori comuni e limpidi. Un esempio? È vano continuare ad auspicare un dialogo con la Siria e tra la Siria e Israele se non ci si preoccupa di quel che sta scritto nella costituzione siriana: «Le masse arabe non hanno considerato l’indipendenza come lo scopo finale e la conclusione dei loro sacrifici, ma come un mezzo per consolidare la loro battaglia, e come una fase avanzata nella loro lotta continua contro le forze dell’imperialismo e del sionismo».
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