Proponiamo un’analisi di Emanuele Ottolenghi tratta da ‘il Riformista’ del 28 giugno scorso, che descrive accuratamente le dinamiche degli ultimi eventi in Iran.
La società civile iraniana – terrorizzata, azzittita, brutalmente repressa, ma straordinariamente viva e forte nei numeri – ha dimostrato di volere trasformare l’Iran in un paese diverso. Ed è proprio su questa società che si deve puntare, attraverso sagge e oculate politiche mirate a isolare il regime e rafforzare l’opposizione democratica. Perché i democratici, pur se minoritari sino ad ora, in questo momento potrebbero trascinare dalla propria parte anche i chierici riformisti interni al regime, ed i Bazari (commercianti, classe media), che sono oramai spaventati da Ahmadinejad.
Ma quale dialogo coi golpisti iraniani?
Il putsch effettuato dal Leader Supremo dell’Iran Ali Khamenei e il suo presidente, Mahmoud Ahmadinejad, ha messo a nudo due dinamiche parallele all’interno della Repubblica Islamica. La prima, in corso da più di dieci anni, è la competizione tra le diverse anime del regime – una conservatrice e rivoluzionaria e l’altra riformista. In questo gioco si sono inseriti i guardiani della rivoluzione, i pasdaran, che hanno suggellato il colpo di stato con la forza.
La seconda dinamica è lo scontro tra regime e popolazione, avvenuto mediante l’entrata in scena della società civile, di nuovo mobilitata a favore di un cambiamento ancor più radicale di quanto immaginato e sostenuto dall’ala riformista del regime. La divisione all’interno delle elites è stata per anni gestita senza che i perdenti – i riformisti – rompessero i ranghi. Ma l’acuirsi del malessere economico e sociale nel paese ha imbaldanzito i loro sostenitori e la candidatura di Mir Hossein Mousavi ha offerto improvvisamente – e inaspettatamente per il regime – la speranza di una svolta democratica che l’ala più conservatrice ha deciso di schiacciare. Ma sarebbe un errore presumere che i leader politici che hanno cavalcato la piazza fino al giorno delle elezioni sarebbero stati pronti a spingersi fino a dove i loro sostenitori avrebbero voluto. Rimane da esplorare la possibilità ch! e dopo il 12 giugno anche i leader riformisti, quelli almeno che sopravviveranno politicamente alla repressione, si schierino con la piazza.
È evidente che la decisione di imporre la vittoria schiacciante di Ahmadinejad deriva da due fattori: il desiderio di sancire e suggellare il predominio conservatore e rivoluzionario a discapito dei suoi nemici all’interno del regime e il timore che la pressione politica della mobilitazione senza precedenti della società civile potesse travolgere non solo Ahmadinejad ma anche la Repubblica Islamica.
La partita che si gioca oggi in Iran dunque ha due fronti: lo scontro tra le forze rappresentate dal presidente contro le forze che sostengono il suo sfidante da una parte – lo scontro ai vertici del potere – e lo scontro tra il regime e la società civile.
Molto si è detto della rivalità tra il Leader Supremo Khamenei e l’ex presidente Ali Akhbar Hashemi Rafsanjani. È una rivalità personale oltre che politica. Ma essa trascende il controllo del clero sciita – che fino al consolidamento al potere di Khamenei costituiva la spina dorsale della Rivoluzione. Khamenei, le cui credenziali religiose di “modello”, o di autorità religiosa da emulare e seguire, non erano certo robuste al momento della sua nomina a successore del fondatore della Repubblica Islamica Ayatollah Ruollah Khomeini, ha pazientemente consolidato il suo controllo negli anni affidandosi sempre di più all’apparato di sicurezza e ai guardiani della rivoluzione. A loro ha affidato sempre più controllo sull’economia e sui gangli del potere dello stato, a scapito delle due tradizionali classi sociali che determinano il corso politico in Iran – il bazaar e il clero. Rafsanjani, che! in un primo tempo aveva sostenuto l’ascesa di Khamenei, oggi si trova nell’occhio del ciclone perchè egli rappresenta non solo una posizione meno millenarista rispetto ad Ahmadinejad ma anche perchè egli cerca di riaffermare il controllo del clero su stato e Rivoluzione.
Khamenei ha dunque utilizzato le elezioni per sferrare un colpo decisivo ai suoi avversari e ha utilizzato le manifestazioni di piazza come scusa per schiacciare gli oppositori a risultati annunciati. L’ondata di arresti ha interessato non solo la cittadinanza media che, defraudata del suo voto, si è riversata in piazza a protestare, ma prima di tutto i giornalisti, i politici, gli intellettuali e altre figure chiave ai vertici dello stato che non condividevano la linea scelta dal Leader Supremo e dai suoi alleati.
Nella scelta del Leader Supremo di schiacciare l’opposizione gioca però un ruolo importante la società civile. Mousavi non rappresentava, almeno non prima del 12 giugno, un vero e proprio cambiamento. Uomo di regime, mandante degli attentati a Beirut contro i marines americani e francesi, leader feroce dei primi giorni sanguinari della rivoluzione, economista dirigista e uomo chiave nelle decisioni della prima ora di iniziare un programma nucleare militare clandestino, Mousavi aveva delle credenziali rivoluzionarie impeccabili. Ma la sua scesa in campo ha risvegliato la volontà popolare di una svolta che andasse al di là delle timide riforme – represse anche allora nel sangue – che la breve stagione riformista dell’ex presidente Mohammad Khatami aveva offerto agli iraniani. Il regime deve aver ragionato che la mobilitazione di piazza senza precedenti gli sarebbe sfuggita di mano e che la crisi offriva un’opportunità chiave: di chiudere i conti con l’opposizione interna e di soffocare nel sangue ogni velleità democratica.
Quali opzioni si prestano all’Occidente di fronte a questo quadro? La tentazione di negoziare a dispetto di quanto è accaduto è forte – e lo si è visto nel linguaggio blando del G8. Ma gli eventi delle ultime settimane dovrebbero aver chiarito anche ai più dediti fautori della diplomazia a oltranza che non ci si può attendere una svolta pragmatica a Teheran dopo questi avvenimenti. Il regime – una volta consolidata la sua vittoria e completata l’opera di purga di dissidenti e oppositori – cercherà la rissa con l’Occidente, non la riconciliazione. Proprio ieri Ahmadinejad è tornato a lanciare i suoi strali minacciosi, denunciando le «opinioni offensive di alcuni responsabili occidentali» nei confronti dell’Ira e, affermando che intende approfittare della sua presenza «in tutte le istituzioni internazionali per fare il processo» a questi dirigenti, a cominciare da Obama. È nella logica di un regime di questo genere – specie uno che si potesse ancora sentire minacciato internamente – di non cercare l’apertura al mondo esterno e la strada del compromesso in politica estera. Invece evocherà costantemente e in maniera paranoica i complotti che si tessono contro l’Iran, puntando ad accelerare al contempo i suoi sforzi sul fronte nucleare come garanzia ultima di sopravvivenza ed egemonia dell’ideologia rivoluzionaria uscita trionfante dal putsch di giugno.
Se l’impegno diplomatico serve a convincere i fautori del dialogo riguardo alla sua futilità allora ben venga. Ma nel frattempo, vorremmo ricordare a chi, come Franco Venturini ieri sul Corriere della Sera, non vede altra alternativa tra l’attacco militare e il dialogo con questo regime grondante di sangue, che esiste una terza via. La società civile iraniana – terrorizzata, azzittita, brutalmente repressa, ma straordinariamente viva e forte nei numeri – ha dimostrato di volere trasformare l’Iran in un paese diverso. Il regime ha dimostrato che la sua ideologia gode di pochissimo seguito e può solo contare sulla forza e la repressione per imporsi. Quella società civile e le sue speranze di democrazia – che il regime vede come una minaccia esistenziale – devono diventare i nostri alleati e la nostra priorità. Un Iran democratico aprirà le porte del suo nucleare alla trasparenza. Cesserà di sostenere la sovversione e il terrorismo a Gaza, in Libano, in Iraq e in Afghanistan. Cambierà le sue priorità economiche puntando a investire sul futuro invece che distruggere in nome di un mitico passato. Sarà un agente di stabilità e moderazione in una regione che non è né l’uno né l’altro. Sarebbe un alleato naturale dell’Occidente.
Offrire il nostro aiuto e la nostra solidarietà tangibile, attraverso sagge e oculate politiche mirate a isolare il regime e rafforzare l’opposizione democratica deve diventare il nostro imperativo politico. Di fronte a questo regime, sostenere la democrazia non è solo un disperato gesto utopico o l’espressione idealista di un imperativo morale. È un atto dovuto che mira anche a servire i nostri interessi strategici. È inutile dialogare con questo regime – nulla ne verrà fuori se non tempo prezioso perché i suoi gerarchi consolidino il loro potere e avanzino le loro ambizioni. È tempo di isolarlo e aiutare quelle forze politiche in Iran che, dopo le immagini di queste settimane, ci dovrebbe risultare impossibile ignorare.
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