Il 1 novembre 2012 il primo ministro ugandese Amama Mbazizi, in risposta a un rapporto dell’ONU che accusa Ruanda e Uganda di armare un gruppo ribelle nella Repubblica Democratica del Congo, ha annunciato il ritiro delle truppe dalla missione di peacekeeping in Somalia (AMISOM).
La missione ne sarebbe seriamente compromessa: il contingente ugandese rappresenta circa un terzo del totale delle truppe – in tutto 17.000 uomini provenienti da Kenya, Uganda, Djibouti, Sierra Leone e Burundi.
Recentemente l’AMISOM aveva fatto progressi sul terreno strappando la città di Kismayo jihadisti di al Shabaab. Il ritiro ugandese potrebbe spingere anche altri paesi ad abbandonare la missione, lasciando la responsabilità della capitale – Mogadiscio, attualmente protetta dall’esercito ugandese – all’esercito somalo, troppo debole per reggere gli assalti del nemico.
Un passo indietro?
Sono in molti a pensare che si tratti di un bluff per spingere gli altri paesi a ritirare l’accusa: abbandonando la missione il presidente ugandese Museveni rischia di mettere a repentaglio i rapporti con gli alleati vicini – in primis con il Kenya – e lontani – con gli USA, che forniscono a Kampala denaro, armi e addestramento militare.
Museveni, al potere dal 1986, per continuare a governare deve poter contare sull’appoggio dell’esercito e della polizia. Perciò in tutti questi anni ha continuato a ‘comprarsi’ il loro appoggio offrendo ai comandanti favori e lauti bottini di guerra – come in Congo durante la prima e la seconda guerra del Congo (1996-97 e 1998-2003), quando i militari furono lasciati liberi di saccheggiare il paese e ricevettero parte dei proventi delle miniere conquistate dall’Uganda.
L’AMISOM è una gallina dalle uova d’oro per Museveni: gli stipendi dei soldati ugandesi, stanziati dall’UE, sono di $1028 mensili – rispetto a una media ugandese di $700. È improbabile che Museveni voglia privarsene proprio ora.
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